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Se potessimo avere una nitida cognizione del nostro male, se di colpo il linguaggio così come la vita cessassero di procurarci prove della loro insufficienza, così da permetterci un ritratto ineccepibile delle nostre ferite, allora non avremmo bisogno di scrivere e leggere romanzi. Potremmo starcene quieti in silenzio, tutti compresi nella visione della nostra solitaria ora di piombo. Nel mondo che conosciamo, invece, bisogna darsi una mossa e mettersi in viaggio. È quello che fa Massimiliano Santarossa con il suo "Viaggio nella notte", elegia solenne che non incita a nulla e racconta l'addio alla vita di un operaio-schiavo deportato dalla sua fame in una fabbrica del Nord-Est italiano, dove verrà a sua volta divorato. Strappato alla natura dalle esigenze della produzione industriale, così come le bestie spersonalizzate e immolate al mito della carne felice di cui si ciba, condivide con queste il medesimo destino di esclusione e sterminio. Ci troviamo nei sotterranei del grattacielo di Horkheimer, l'edificio la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale. Giunto al suo ultimo giorno l'operaio con la divisa chiazzata di urina e merda, orfano reso afasico dal troppo orrore vissuto, sa bene che ai piani alti, quelli da cui è possibile godere della vista sul cielo stellato, lui non avrà mai accesso, nemmeno per crepare. Essere senziente relegato ai margini dell'umano, il cui sfruttamento e la cui morte sono resi invisibili dalle stesse leggi che regolano il dominio interspecifico e lo giustificano, l'uomo che non possiede più neanche un nome è la nostra guida in questo viaggio di inverno. Non una discesa negli inferi, ma il raggelato peregrinare di un sopravvissuto che decide di morire ad occhi aperti, perché distogliere lo sguardo questa volta non si può, non più. Mettete su il Winterreise di Schubert, iniziate a leggere e preparatevi a soffrire o a vergognarvi di voi stessi.
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