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Il ôvicolo Verdeö che dË il titolo all'ultimo romanzo di Silvia Di Natale Ì un luogo dell'anima prima ancora di un vero e proprio toponimo urbano. Esso rappresenta insieme sia il laboratorio di scrittura in cui si rintana l'io narrante femminile per concludere la laboriosissima stesura di un libro, sia l'appartato angolo prospettico da cui la donna coglie la cruda realtË di malattia in cui vive, meditando sulle tante vicissitudini trascorse. Entro tale ambito appartato la protagonista entra in contatto con gli strati pi¿ profondi della memoria e ricostruisce quindi la propria storia familiare: da un'infanzia trascorsa in ristrettezza accanto a una madre piccolo borghese, tanto nevrotica e ossessiva quanto gelosa e svalutatrice della figlia, sino all'emancipazione (solo in parte attuata) nei confronti dell'invasiva figura materna, a lungo sofferente di un tumore, analogo a quello che poi la stessa protagonista si troverË a patire, vivendolo come una sorta di maligno lascito ereditario.
Una storia densa di vicende e attori innumerevoli, narrata con una prosa dal taglio espressivo tradizionale, caratterizzata da tersitË e fluiditË di scrittura, ma oceanica nel suo tendere a dilatarsi sempre pi¿ lambendo ambiti geografici e temporali lontani e vasti, attraversati da personaggi appartenenti a pi¿ generazioni. Cos², data la stura alla reminescenza, la protagonista inizia a raccontare e la sua narrazione scorre lieve, precisa e fresca, descrivendo al lettore personaggi memorabili, storie remote di nonni, genitori e figli, in un amplissimo arco spazio-temporale che va dall'Italia del secondo dopoguerra mondiale alla Germania di oggi.
ôMi protegge, il vicoletto, dai ricordi senza sottrarmeliö nota l'io narrante in apertura di volume, precisando: ôSono tutti qui, ammucchiati dentro, non ne ho perduto nessunoö. E i lacerti della memoria si ricompongono nell'orditura variegata di un racconto corposo, volto a partecipare al lettore soprattutto le sofferte emozioni di una donna ipersensibile nei confronti della sofferenza propria e altrui. Ed Ì giusto la malattia della madre (cui si sovrapporrË, appunto, quella analoga della protagonista) a porsi quale perno narrativo intorno a cui ruota questo romanzo di ambasce e dolori discreti, sempre colti mediante la presa di distanza di una salutare ironia in grado di tutto stemperare/superare.
Ben tratteggiate pure le figure maschili della narrazione. Da quella del padre della donna − dilapidatore di magri bilanci familiari in brevetti di improbabili aquiloni per produrre energia a buon mercato − a quella del marito di lei, uomo positivo, in grado di sostenerla psicologicamente nelle circostanze pi¿ critiche; infine, a quella del figliolo Fabio, che cresce gracile, spesso lontano da una madre tutta presa dalla sua scrittura. Come notevole Ì l'attenzione ai particolari evocativi, ai dettagli che permettono all'autrice di ricostruire scenari fra loro assai dissimili, quali ad esempio una certa Italia provinciale negli anni del boom economico nostrano o il '68 fra gli studenti universitari tedeschi, in una Germania dove le parole d'ordine della sinistra contestatrice erano: ôKlassenkampf, Proletariat, Revolutionö. Infatti, l'unico modo per sottrarsi all'influenza nefasta della madre da parte della protagonista sarË emigrare a Nord, fino a Ratisbona, fino ônella caverna uterina del vicoletto Verdeö: gabinetto alchemico di una creativitË tormentata in cui ôal buio, nel silenzio, il mio libro crescevaö. Francesco Roat
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