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Ottima l'idea di raccontare le conseguenze dell'Olocausto attraverso il punto di vista di un'adolescente. Non si tratta dell'ennesimo romanzo sulla vita nei campi di concentramento, bensì viene descritta la vita quotidiana di una famiglia ebrea nella Germania del dopoguerra - padre, madre, nonna, due figlie adolescenti - soffermandosi sul significato e sulle conseguenze psicologiche, sociali e culturali dell'"essere" e del "sentirsi" ebrei (popolo eletto o razza inferiore?). Per la protagonista Fania, figlia di due sopravvissuti ai campi, trovare una risposta a tutto ciò sembra di importanza cruciale ai fini della costruzione della propria identità. Il libro ha il grosso difetto di essere poco scorrevole. La protagonista narra il tutto in prima persona, utilizzando il linguaggio un po' caotico degli adolescenti fatto di frasi spezzate e di fatti narrati così come vengono in mente, senza un ordine cronologico. Lo stile - onestamente originale nell'idea - ricorda lontanamente quello dello Zeno Cosini di Italo Svevo. Tuttavia l'abuso del discorso indiretto libero, la totale assenza di dialoghi, le frasi spezzate rendono il racconto confuso, pesante, i personaggi difficili da comprendere. Voto 5 per la trama e 2 per lo stile, quindi 3.
Recensioni
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Una domanda alla quale i genitori tedeschi reagiscono ancora oggi con suscettibilità è quella relativa al passato nazista. Succede tuttavia che quando i testimoni diretti vengono meno, i figli si sentono liberi di ricostruire quel passato raccontando un pezzo della propria storia. Esistono oggi, infatti, talmente tanti testi sul tema che diventa necessario distinguere tra chi parla, e non solo da un punto di vista generazionale. La stragrande maggioranza delle voci è quella dei figli dei colpevoli o dei cosiddetti gregari (come Gisela Heidenreich,In nome della razza ariana, Baldini Castaldi Dalai, 2004; cfr. "L'Indice", 2005, n. 5). Il fatto che le nuove generazioni si pongano delle domande è un atto doloroso e inevitabile, d'altra parte l'elaborazione del passato dalla prospettiva delle vittime è ancora limitata.
Spesso lo sforzo di questi figli di spezzare il muro del silenzio, di ricostruire e rendere pubblica la loro storia va contro la volontà degli stessi familiari, motivo per cui questa generazione continua a sentirsi diversa. Il senso di responsabilità di fronte alla sofferenza dei padri, l'anomalia di una storia familiare e l'implicito dovere morale di rendere giustizia alle vittime aleggia sui discendenti fino a rendere difficile una vita spensierata all'interno della società. "Tutte le sere la stessa scena. Gli scuri sono chiusi, fissa bene le sbarre di ferro che non si aprono, c'è una fessura lì (...) Ecco, dice [la mamma], adesso non può entrare niente e nessuno". Ma è anche difficile raccontare di chi già allora si era reso conto di quale tragica svolta stesse facendo la Storia.
Lo fa invece la giornalista tedesca Viola Roggenkamp con questo suo primo riuscitissimo romanzo che apre nuove prospettive, colmando un vuoto nella memoria collettiva. Bestseller in Germania, il libro viene ora pubblicato in molti paesi europei. Con uno stile ricco di un avvincente linguaggio figurato, di calore e di humour, Roggenkamp racconta la vita quotidiana di una famiglia tedesco-ebrea poco prima del Sessantotto, in una villa sinistrata ad Amburgo-Harvestehude. Un'esistenza come altre, ma sotto cui si cela un trauma. Come Günter Grass nel suoTamburo di latta, la scrittrice predilige il punto di vista interno del narratore ingenuo. Al posto di Oskar troviamo qui Fania, la figlia quattordicenne di casa Schiefer, e da lei sappiamo che il papà non ebreo Paul Schiefer era stato denunciato perRassenschande, ossia per aver sposato Alma. Per salvare moglie e suocera, Paul aveva rotto con la sua famiglia ed era finito in prigione, subendo la persecuzione riservata agli ebrei. Quando poi gli era stata negata l'immigrazione in Israele come tedesco non ebreo, Alma Schiefer era uscita dalla comunità ebraica per amore suo.
Fania esprime la sua gratitudine per quanto i genitori avevano fatto con quella disarmante laconicità che la caratterizza. La mamma, alla quale faceva male parlarne, "lasciava fluire il dolore su di noi. Dobbiamo stare dalla sua parte, siamo sue figlie, dobbiamo tenere per lei e per lui. Non c'è altra possibilità. Altrimenti basta, fuori. Hanno fatto tutte le cose giuste, sono sopravvissuti". Oppure quando descrive una scena familiare con la madre: "Si infiamma, come quando se la prende con quella organizzazione di soccorso ebraica che non ha voluto prendere mio padre, mia madre si infiamma tra le patate bollite sui nostri piatti". Oltre alla storia di formazione adolescenziale delle figlie Schiefer, che oscillano tra una propria vita e la lealtà per l'eredità tedesca del padre e quella ebraica della mamma, Viola Roggenkamp fotografa un momento cruciale del dopoguerra tedesco, la vigilia del Sessantotto, appunto. In famiglia si vivono ancora le esperienze traumatiche della guerra mentre fuori, nella società, tutto questo non esiste più. E non solo. In casa Schiefer convive la tradizione del riposo del sabato e delSchabbesbrotcon il ritmo incalzante della vita esterna: da qui l'immancabile conflitto interiore delle figlie di questa coppia straordinaria. Così Vera, la sorella maggiore, da una parte imita l'acconciatura di Farah Diba di moda allora, dall'altra contesta la visita delloshah di Persia a Berlino e si sente solidale con Rudi Dutschke.
Il libro è ricco di piccole e grandi storie dove minuscoli frammenti di memoria vengono messi insieme, in un commovente quadro letterario che si colloca nell'ambito del romanzo di memoria ebraica:Das Memorieren, sorride Viola Roggenkamp, è una nostra vecchia tradizione.Vita di famiglia è una narrazione densa e suggestiva dove il procedere vertiginoso si alterna alla pausa riflessiva. È un testo magistrale che si legge d'un fiato anche in traduzione, che affascina ed emoziona.
Eva Bauer Lucca
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