Nell'ultimo romanzo di Eraldo Affinati sono tante le storie che s'intersecano e sovrappongono: quella di Khaliq, un ragazzo fuggito dal Gambia e approdato in Italia, quella degli scolari romani di Affinati, ma anche quelle dei giovani morti durante le due guerre mondiali e degli abitanti del villaggio di Sare Gabu, dove vive la madre di Khaliq. Questi fili tessono la trama di un'esperienza capace di mutare una vita, di trasformarla in vita di vita: come già accadeva in Peregrin d'amore, anche in questo caso la scommessa di Affinati è quella di trovare il ponte capace di connettere vita e letteratura. La letteratura (quella intrisa di lacrime e sangue delle lettere dal fronte o dei condannati a morte, ma anche Levi e Montale, Leopardi e Verga) non è solo il contrappunto dell'esperienza: ne è la linfa, il completamento, il senso profondo: "Ho incontrato Khaliq per caso, a scuola. Lui mi ha fatto leggere un tema. Prof, ti racconto mia storia. Scatta una scintilla. Il fuoco divampa. E ora sono qui nella casa ritrovata dopo la tempesta. Vivi e morti si stringono la mano. È questo il gran convegno di studi sulle nostre teste che i vecchi maestri hanno chiamato filosofia, religione, letteratura?". Così, quando Khaliq racconta per tappe la sua storia italiana (il viaggio travagliato, la scuola, l'impiego da barista, l'iniziale diffidenza delle vecchiette romane che mai si direbbero razziste eppure non vogliono essere servite da lui), il commento dell'autore è inevitabile: "Resisti Khaliq
Tutto ritorna, in forma nuova
Deso quele vechiete voiono che io servi loro
Le hai conquistate
Questo è quel mondo? Questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte delle umane genti?". È poesia che si fa prosa, tradizione letteraria che innerva la vita. Vita di vita, appunto: letteratura che "certifica i singhiozzi. Documenta le fughe. Rappresenta le crisi. Celebra le vittorie". Il viaggio africano di Affinati, in compagnia dell'amico Gerry e di due guide locali, Sefu e Babu, potrebbe risolversi come semplice viaggio di indagine e studio, potrebbe essere una versione contemporanea del viaggio di Gulliver, o di quello di Malinowski. In realtà il modello, dichiarato tra le righe, è quello archetipico di Enea. Stretto tra due generazioni, tra il padre Anchise e il figlio Ascanio, il narratore sa che il suo è in primo luogo un viaggio di testimonianza, finalizzato ad attestare la verità del racconto di Khaliq, a garantire la realtà della sua esperienza, a dare legittimità al suo sogno di una patria nuova: l'Africa diseredata e depredata è la novella Troia che Khaliq porta nel cuore (ove, come Enea, lascia affetti e radici) e che necessariamente deve abbandonare per realizzare un mondo migliore, a Talia. Khaliq è tutti gli orfani del mondo, ma è anche colui che consente di riconnettere i fili spezzati, di riannodare le corrispondenze affettive al di là del tempo, dello spazio. Più che essere un resoconto sulla realtà africana oggi, e sulla condizione dei migranti, questo romanzo (questa in effetti è la dicitura utilizzata nel sottotitolo) ha al centro il rapporto padri-figli: quello di Affinati con i propri allievi, quello dei giovani soldati della prima guerra mondiale con le loro famiglie e con la patria, quello di Khaliq con la madre ritrovata e ancora quello del narratore con il bambino africano che porta il suo nome, Babucar Bacari Eraldo Affinati. L'esperienza testimoniata da Vita di vita è radicale, non consente sconti o scorciatoie, ma come ogni radicalità, per essere narrata, ha bisogno di limiti: per questo non siamo di fronte a un mero reportage, perché ci sono cose che "è bene che restino senza memoria, come quelle che primo Levi tenne per sé a Fossoli": anche Affinati è convinto che non serva volere a tutti i costi illuminare le zone più buie dell'umano, come se ciò bastasse ad affrancarci dal dolore, dalle miserie della storia. Al contrario, l'operazione (riuscita) di Affinati è piuttosto quella di "ricomporre i pezzi" di una storia, mirare a un disegno generale, a un mosaico alluso per frammenti, come è frammentario eppure efficacissimo l'italiano pieno di sospensioni e di incertezze del giovane Khaliq. In effetti, Vita di vita è sì un reportage di viaggio, un saggio antropologico ma soprattutto è un'opera ibrida che contiene al suo interno una grande scommessa stilistica: attribuire dignità letteraria all'italiano degli immigrati, affiancare le esperienze linguistiche di Khaliq, dei borgatari romani, dei giovani caduti durante del guerre del XX secolo, e dei nostri padri letterari. L'happy ending riguarda Khaliq, ma sarebbe ingannevole estenderlo oltre: per questo il libro si chiude con la Lettera ai responsabili dell'Europa, trovata nel 1999 nei pantaloni di due ragazzi fuggiti come Khaliq da Conakry, e rinvenuti cadaveri nella stiva di un aereo, assiderati. Per questo l'ultima pagina del romanzo è la confessione di un fallimento educativo: la violenza verbale e fisica di un allievo, che accusa il professor Affinati di averlo rovinato, di averlo condotto all'insuccesso e alla sconfitta, non sancisce l'inutilità della quotidiana impresa, bensì è il frammento che non combacia, e che rende più umani. Chiara Fenoglio
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