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Nonostante la trama minimale, il libro di Elena Varvello cattura e incanta. Frasi brevi e scene essenziali per disegnare un personaggio di giovane uomo che rimane nel cuore anche dopo la lettura. Consigliato anche per la fascia young adult.
La lingua cesellata, dura, trasparente........non cattura. Romanzo mediocre dove l'autrice pensa di scrivere in lingua cesellata e dura e trasparente, come altri più grandi prima di lei, ma invece ne risulta un'allieva che ha seguito troppo alla lettera le indicazioni del prof. L'ho finito, ma penso che Varvello per me sia un capitolo chiuso.
Una buona storia scritta bene, a metà fra un romanzo di formazione e un giallo di provincia, che monta in un crescendo di piccoli episodi e rimandi, ma che si sgonfia un po' quando si arriva al dunque. Anche il salto fra una scena e l'altra e fra momenti del presente e flashback non è gestito sapientemente. Comunque da leggere.
Recensioni
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(…) La storia è raccontata qualche anno dopo i fatti dallo stesso protagonista: Elia Furenti. Alla fine degli anni settanta, Elia viveva in una di quelle cittadine incuneate nella mezza montagna attraversata dalle direttrici che portavano le carovane di cittadini ai parchi giochi invernali. Carovane che si lasciavano dietro solo fumi di carburante esausto e qualche spicciolo alle panetterie aperte la domenica. Erano borghi di gente che si arrabattava, sempre in salita, gente tagliata fuori dal boom economico, tradita dalla rivoluzione industriale come nelle periferie di Manchester, Bristol o Glasgow. Era il tempo della nascita di una storia d’amore difficile e nel quale Elia conviveva con un padre che aveva perso il lavoro, perso il contatto con la realtà e celava un segreto terribile. Date le premesse Elia potrebbe inaugurare il suo ingresso nella vita adulta con il botto. Organizzare un gruppo armato, buttarsi nella droga, fondare un gruppo folk-rock dai capelli lunghi, insomma dar sfogo rumoroso ad una rabbia legittima. Ma Elia non è di questo avviso. Elia osserva, raccatta, mantiene la posizione. Per definire il movimento sospeso di Elia è necessaria una parola locale. Elia rabasta. È una parola sulla cui prima sillaba ci si sofferma costringendola all’onomatopea. Rrrrrrr. Letteralmente significa raschiare, soprattutto raschiare il fondo del barile. Elia piemontese e mezzo montanaro è abituato alla rarità emotiva, all’avarizia dei gesti, è quindi abituato a rabastare ciò che c’è di buono nelle sue giornate, nei rapporti con gli altri. Raccoglie con metodo la rara polvere d’oro che si cela nella sua famiglia e nella sua vita. E lo fa raccontando con rigore la storia di quei giorni, costruendo una specie di ponte tra il personaggio e l’autore della storia. Quindi anche Elena rabasta. Gratta via dalle frasi le parole superflue lasciando alla storia solo piccole schegge dorate, brevi composizioni esattissime dalle quali trarre l’essenza e niente più.
Mio padre era un manutentore, quel lavoro gli piaceva e non l’avrebbe mai cambiato. Quando le commesse presero a calare e i costi a lievitare, la società venne venduta. Mi padre ci diceva: «Tira una brutta aria». I nuovi proprietari truccarono i bilanci, rubarono i soldi, fregarono la gente.
E niente più.
Oltre che sabauda di nascita Elena è sabauda nel linguaggio, accarezza la scrittura con un’esattezza che contiene i sentimenti, li spoglia, li scolpisce nitidi fino alla crudeltà. Non bisogna ingannarsi, non c’è freddezza, anzi tutto il contrario. Ci vuole coraggio a raccontare le cose così come sono, senza aggettivi, senza quelle esplosioni catartiche di pathos, di pianto rituale, di lamentazione a bocca aperta che fanno uscire il dolore, lo disperdono nell’aria e ne condividono il peso. Elia ed Elena non si permettono sbavature. Restano in piedi come gli sparuti fanti sabaudi trincerati sul colle dell’Assietta che di fronte a forze dieci volte superiori risposero al nemico con l’ormai paradigmatico bugia nen, non non ti muovere. Un eroismo statico, fatto per via di levare, i pochi contro molti, la rinuncia di fronte all’agitazione. (…) Elena sembra figlia naturale di quel Friederich Dürrenmatt che decretò il requiem per un romanzo giallo con La Promessa. In quel “poliziesco” il meccanismo dell’investigazione si inceppa in una muta vicenda familiare che chiude ogni sbocco. E il detective, convinto nell’esistenza di una soluzione piana, rimane invischiato in una promessa che non potrà onorare, perdendosi. Vittime, colpevoli e coinvolti non si possono più districare. Elena è una dei pochi autori ad aver compreso appieno la lezione de La Promessa.
Recensione di Livio Milanesio
Ecco un romanzo prevalentemente al maschile: un figlio e un padre al centro della vicenda. È il primo, Elia, a raccontare, una trentina di anni dopo i fatti, ciò che è accaduto quando era adolescente, all’epoca in cui il genitore venne licenziato e cominciò a comportarsi in modo strano, rimanendo per ore sul suo furgone o chiuso in garage, scrivendo lettere che rivelavano un complotto.
L’atmosfera è da noir, lo stile serrato e giocato su omissioni e sottrazioni, su rari e progressivi indizi; il risultato una lettura che si fa con il cuore in gola, e che inquieta. anche se fin dall’inizio sappiamo che il padre, Ettore, ha portato nel bosco una ragazza, anzi, proprio perché già conosciamo il colpevole, di pagina in pagina cresce la tensione dettata dal desiderio di conoscere i modi di quell’agire e soprattutto le ragioni. Romanzo anche di formazione, di educazione sentimentale, per come i fatti incidono sulla personalità del giovane, per come ne orientano la crescita, per l’attrazione che prova nei confronti di una donna ben più grande di lui, madre dell’amico Stefano, per la scoperta del sesso che infine ne consegue. (…).
Per ricostruire il passato dell’io narrante, Varvello adotta una struttura narrativa binaria alternata: corredati di titolo i capitoli in cui l’io narra, segnalati da numeri gli altri, nei quali la terza persona riferisce gli avvenimenti nel loro accadere. Un sovrappiù di suspense dato dalle continue interruzioni, messo a punto con professionalità dall’autrice. Il titolo: antifrastico, si direbbe, al limite della provocazione, dal momento che essere figli di un padre così ingombrante e folle (si è parlato di bipolarismo estremo) sembra escludere a priori la possibilità di un percorso di vita felice. Eppure l’excipit sembra a propria volta contraddire l’antifrasi: “Il bene che, nonostante tutto, diamo e riceviamo. La vita felice. La vita che ci resta, è solo questo, e (...) non va sprecata”. Esclusa la felicità, si può allora recuperare il “bene” che c’è stato e c’è; così forse è possibile accedere a una serenità che apre alla consapevolezza, dopo avere ricomposto dentro di sé le relazioni genitoriali attraverso la narrazione della propria storia, con lo strumento della memoria come cardine conoscitivo. Uno strumento però non sempre fedele, spesso anzi ingannevole, ma che anche nell’inganno nasconde una verità. La quale ci avverte che la memoria è per definizione legata al passato, ma ha a che fare con il presente e il futuro, anche se non li determina del tutto (…).
Recensione di Luisa Ricaldone
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