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Una bambina suadente, un duello, una nonna che possiede la chiave degli Inferi, l'esame di glottologia. Un racconto che incanta, la voce unica di uno dei piú grandi scrittori contemporanei.
«Di schiavitù si tratta quando ogni componente della famiglia ti tratta come invisiile solo con la promessa di tenerti in vita, due vestiti, un tetto, il cibo. Per la prima volta Starnone tocca questo destino crudelissimo delle donne meridionali, delle donne di una certa generazione e delle donne tout court, lo fa senza politica e senza la retorica della compassione: solo ammettendo che senza quella nonna non ci sarebbero stati né artisti né personaggi» - Valeria Parrella, Robinson
«Lei giocava a fare – mi sembrò – la ballerina di carigliòn, saltellando a braccia tese e dandosi ogni tanto a una piroetta. Quant'era bella la sua figurina contro i vetri luccicanti di sole, audace nei saltelli, cosí esposta alla morte.»
Immaginate un bambino sognatore, sempre affacciato alla finestra. La nonna sfaccenda in cucina, e ogni tanto butta un occhio a guardarlo. Lui invece fissa sedotto il balcone del palazzo di fronte, dove la bambina dai capelli neri danza la sua danza temeraria. Per un amore cosí, un ragazzino ardimentoso può spingersi a prodezze estreme, duelli all'ultimo sangue, addirittura a parlare l'italiano. Sarà la nonna – che per lui ha un'adorazione smisurata – a vegliare sulle sue millanterie, seduta nel cantuccio della cucina. Lei non ha dimestichezza con le parole, ma non difetta di fantasia. Quando, forte della sua lunga vedovanza, gli racconta della fossa dei morti, scolpisce immagini indelebili nella mente del nipote. Da bambini si può essere tutto. L'esploratore o il mozzo, il naufrago o «il caubboi», Ettore o Ulisse. Da bambini ci si può innamorare guardando il balcone tutto celeste del palazzo davanti, o credere di aver trovato la fossa dei morti proprio dietro l'aiuola del cortile, da dove si sentono salire inequivocabili tonfi sinistri. Un libro irresistibile, tagliente come le spade della fantasia nascoste sotto il letto, prezioso come un gioiello di famiglia, in cui la scoperta dell'amore e la scoperta della morte si inseguono segnando la fine dell'infanzia. O, chissà, prolungandola al punto che ci si attarda nei giochi e, come teme la nonna, non si cresce piú.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un modo interessante di affrontare il tema della morte da parte del protagonista, in particolare una morte che ha dovuto conoscere da bambino, ma il cui tormento lo accompagnerà negli anni successivi. La storia non risulta eccessivamente accattivante, ma è un bello spunto di riflessione per chiunque si trovi a disagio a parlare o a pensare di questo tema. Inoltre vengono approfonditi diversi aspetti della vita quotidiana, come i rapporti amicali e familiari, il rapporto tra dialetto napoletano e italiano come distinzione non solo sociale ma quasi tra umano e ultraterreno, agli occhi di un bimbo. Il senso generale del libro e il finale possono deludere, ma credo che siano lasciati così appositamente per permettere idealmente al lettore di terminare il racconto con le proprie conclusioni su un tema principale così delicato e che fa paura a molti. Forse la sua brevità è data anche da questa volontà.
È evidente che mi sia sfuggito il senso del libro. Ne avevo sentito parlare in termini entusiastici ma non mi ha colpito. Non è brutto ma non capisco dove voglia andare a parare e non mi ha lasciato molto. L'unico personaggio degno di nota è la nonna, di cui non può non dispiacere nel vedere come passa la sua vita e come venga trattata dalla sua famiglia
Un romanzo breve, ben costruito e ottimamente scritto. Tra ricordi di infanzia, Napoli, la formazione del protagonista e il rapporto con la nonna. Una bella lettura.
Recensioni
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“Quant’era bella la sua figurina contro i vetri luccicanti di sole, a braccia levate, audace nei saltelli, così esposta alla morte. Mi sporsi perché mi vedesse bene, pronto a gettarmi anch’io nel vuoto, se lei fosse caduta.”
In Vita mortale e immortale della bambina di Milano, Domenico Starnone traccia con la delicatezza dell’infanzia e l’ironia della maturità i contorni di due storie d’amore distinte, ma che non s’esauriscono, e perciò via via si sovrappongono.
Affacciato alla finestra, il naso schiacciato contro il vetro, Mimì osserva incantato la bambina dai “capelli nerissimi come Lilìt, la moglie indiana di Tex Willer”, la “ballerina di carigliòn” che, sul balcone del palazzo di fronte, completa la sua danza spavalda sulla striscia stretta del davanzale.
Per questo amore, Mimì è pronto a tutto: duelli con spade, ferite sanguinanti e corse spericolate. Come Orfeo per Euridice, è pronto persino a scendere nella “fossa dei morti”, di cui la nonna, pratica per la sua lunga vedovanza, gli ha spiegato tutto per filo e per segno.
In lei, “gobba, col naso a papaccella, di bassissima statura”, la devozione per il nipote è smisurata, inflessibile. È questo il secondo amore che ci accompagna fino alle ultime pagine, stregandoci con la sua potenza di sentimento e l’espressività del dialetto napoletano, l’unica lingua che la nonna conosce, “il fiocco annodato intorno alla lingua” che siamo spinti a sciogliere.
Una narrazione scandita da opposti che, tuttavia, se osservati con più attenzione, si rivelano poi non così distanti. L’amore e la morte, la mortalità e l’immortalità, la lingua italiana e il dialetto napoletano. Ma, soprattutto, la bambina di Milano e la nonna, a cui —a entrambe— è dedicato il romanzo. Perché quel che si cerca è, in fondo, sempre una riconciliazione.
Simona Casadio
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