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Recensioni Vite minuscole

Vite minuscole di Pierre Michon
Recensioni: 4/5

Vite minuscole esce in Francia nel 1984. È il primo libro di uno scrittore ignoto al milieu letterario, ma è subito chiaro che si tratta di un esordio folgorante.

«Una raccolta di otto ritratti e in un tormentato romanzo di formazione, sebbene indiretto. È qui, in questo peculiare incrocio tra la prima e la terza persona, l’eccellenza del libro; ma è anche qui che si rivela la sua natura intima.»Franco Cordelli, La Lettura del Corriere della Sera

Molto audace: recuperando una tradizione che risale a Plutarco, a Svetonio, all'agiografia, Michon ci racconta le vite di dieci personaggi non già illustri o esemplari, ma, appunto, minuscoli: e dunque votati all'oblio se non intervenisse a riscattarli una lingua sontuosa, di inusitata e abbagliante bellezza, capace di «trasformare la carne morta in testo e la sconfitta in oro». Vite come quella dell'antenato Alain Dufourneau, l'orfano che vuole «fare il salto nel colore e nella violenza», in Africa, convinto che solo laggiù un contadino diventa un Bianco e, fosse anche «l'ultimo dei figli malnati, deformi e ripudiati della lingua madre», può sentirsi più vicino alla sua sottana di un Nero; o come quella, lacerante, di Eugène e Clara, i nonni paterni, inchiodati nel ruolo di «tramite di un dio assentato» – il padre, il «comandante guercio», che ha preso il largo e da allora scandisce la vita del figlio come la stampella di Long John Silver, nell'Isola del tesoro, «percorre il ponte di una goletta piena di sotterfugi»; o come quella dei fratelli Roland e Rémi Bakroot, i compagni di collegio, torvamente sprofondati nel passato remoto dei libri il primo, nell'invincibile presente il secondo, e uniti da una rabbia ostinata non meno che da un folle amore. Santi o losers, paradigmi o catastrofici avatar del narratore, ciascuno di questi personaggi ha in qualche modo ordito il suo destino, istigato un'irreparabile lontananza, fomentato la convinzione che solo nella più inattingibile letteratura c'è salvezza.

«Dall'inverno venivano. E il loro cognome fangoso e testardo non mentiva: venivano anche, forse attraverso una lontana ascendenza di cui poco mi importa, ma molto più nel ceffo e nell'anima che in quel cognome sono inscritti, venivano anche profondamente dalle Fiandre. I fratelli Bakroot erano i rampolli dispersi di una specie di mistero medioevale, terrigno, insomma fiammingo; verso quel Nord la mia memoria li scaglia; lassù arrancano senza fine, l'uno incontro all'altro, in una landa di torbiere, di distese brulle e assediate dal mare, di polder e patate nane, sotto un cielo immensamente grigio alla maniera del primo van Gogh...».)
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4,11/5
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