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La donna in gravidanza può essere turbata da forti desideri, soprattutto alimentari, ancor oggi chiamati ‘voglie’. Se la voglia non viene soddisfatta, facilmente un segno della cosa desiderata dalla madre rimarrà sul corpo del figlio, e si chiamerà anch’esso ‘voglia’. Questa credenza ha una storia molto antica e ha goduto nei secoli del passato di grande diffusione, tanto da suscitare nel XVIII secolo un vero dibattito intellettuale. Se oggi essa è nota come credenza popolare, pare tuttavia che le si possa attribuire un’origine dotta databile intorno al XV secolo. Nel corso del ‘500 e del ‘600 la credenza nella forza dell’immaginazione materna si diffonde a diversi livelli nella cultura dotta europea, mentre fino al ‘500 non c’è testimonianza della sua diffusione in ambiente popolare. Nel corso del ‘700 si sviluppa infine quel dibattito sulla sua credibilità che a fine secolo sarebbe giunto sulle pagine dell’Encyclopedie. Gli oppositori della credenza nelle voglie materne prevalsero nel dibattito settecentesco, ma con la credenza nella fantasia materna, negarono che l’anima potesse modificare il corpo, che lo stato della madre potesse avere a che fare con il benessere del feto, che la donna infine avesse qualche legame con il figlio che portava nel ventre. Trasformata con l’800 in “pregiudizio del volgo”, la credenza vide dapprima negate e ben presto dimenticate le sue nobili origini, mentre la scienza medica sempre più tendeva a convincere le donne che quello che avveniva durante la gestazione non era poi veramente affar loro.
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