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Un romanzo difficile, sia per il contenuto che per la scrittura non sempre immediata. Anche un romanzo che provoca il lettore, suscitando domande, rabbia, dubbi... Per me un libro che merita di essere letto.
Al seguito del film omonimo che ha sortito, su di me, effetti strani e stranianti, ho dovuto andare alla fonte dell'ispirazione di questa storia geniale e potente. Martin Amis è uno fra i miei scrittori preferiti, ma avevo lasciato indietro questo titolo non essendo ultimamente nello spirito adeguato per affondare, di nuovo, le mani nella logistica dell'Olocausto. Qui c'è sì un campo di concentramento, ma è come un malvagio smaug tolkieniano che rumoreggia e sbuffa sullo sfondo e non si palesa mai sfacciatamente; più che altro si intuisce: produce solo il suono della malvagità. Ma questa intuizione è più deflagrante e terrificante della concreta e scanzonata realtà dal gelido distacco emotivo rappresentata dai protagonisti in primo piano. E qui, lo stridore del paradosso si fa assordante e accade ciò che stranisce il lettore, che capovolge i piani di realtà, fino a confonderlo e disorientarlo; fino a fargli salire, sconcertato, la domanda: - Ma come può essere?!? - È La banalità del male, dolcezza! È difficilissimo da spiegare. Mai avevo percepito un'assenza con la presenza e il peso di un tale macigno. Un'assenza/presenza che si spande e tutto avvolge come una nebbia mefitica, ma che lascia - sul sentiero coperto di cenere del giardino - intatti i colori sgargianti dei fiori a ridosso del recinto ad alta tensione e del filo spinato. Qui sta il genio che attinge dalla Storia e ne svela gli antri più bui; qui sta l'arte creativa, sia letteraria, sia cinematografica.
Ho dovuto abbandonarlo, un' elucubrazione di termini tedeschi e di delirio senza senso! Non si capisce quando inizia a parlare un personaggio o quando ne entra in scena un altro. Un romanzo post moderno alla Joyce modello Finnegans wake sull'olocausto, quanto di più inopportuno e inutile ci possa essere.
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