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Anno edizione: 1984
Anno edizione: 2014
Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divide in due la storia del XX secolo: l’attentato in cui fu ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando. Prima di quel giorno, esisteva un mondo che presto sembrò remoto. Dopo quel giorno, è già il nostro presente. Se le guardiamo da vicino, quelle ore traversate da un invisibile confine appaiono gremite, come tutte le altre, di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri fortuiti. Gilberto Forti ha avvicinato ad esse la lente della poesia e ne ha estratto undici «storie in versi» che si presentano con quella felice sobrietà narrativa di cui l’autore aveva già dato prova nel Piccolo almanacco di Radetzky. A parlare sono, ogni volta, personaggi immaginari che raccontano la realtà. E subito ci vengono incontro voci e figure, dall’Imperatore Francesco Giuseppe, che «si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse», all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte all’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono tutti intorno a un centro: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi possiamo vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Imponente è la catena dei casi, delle inconsce volontà, dei consapevoli disegni che portarono a quei colpi di pistola, come se gli eventi fossero calamitati. E quasi come se la vittima li avesse cercati. Francesco Ferdinando qui non parla, ma altri parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Forti è riuscito a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia: sterminatore di animali (più di trecentomila furono da lui uccisi cacciando), appassionato di fiori (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico, finirà dissanguato sotto i colpi di Gavrilo Princip anche perché nessuno saprà aprirgli subito l’uniforme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’incipiente obesità.
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Ma che bello questo libretto, sia chiaro non in senso riduttivo, pubblicato, in prima edizione, in anni non sospetti e/o sospettabili di anniversari, centenari, scoppi della prima guerra e via disquisendo. Sembra poesia ma è prosa, magari poetica, facendo il verso e il recto all'opera precedente, quel magnifico Piccolo almanacco di Radevzky ( spero si scriva così, ma tan'è anche il vuoto ha le sue memorie)che è una lettura davvero da consigliare non solo ai nostalgici di una qualche Mitteloiropa, ma a chiunque ami quel periodo storico nel quale Vienna era la città delle e dalle infinite sfaccettature, non solo culturali, ma officina-labortaorio della modernità, di uno dei suoi sensi e una delle sue declinazioni. A Sarajevo, il 28 giugno, giorno di San Vito, muoiono sappiamo chi e forse anche perchè. Questo libro è, in tanti canti o capitoli, il modo in cui quella fatidica data viene vissuta o rivissuta da parte sia di testimoni oculari sia di personaggi comunque legati alla coppia arciducale. Un testo polifonico, anche se le voci si susseguono una ad una, in una successione a volte compiaciuta, altre volte imbarazzata o compromessa su quella data fatale, comunque sempre ìntimamente ed interiormente compromessa e quindi fallace. Un affresco che non ci restituisce la verità, cosa non necessaria e, sovente, del tutto superflua, ma la percezione di un qualcosa che stava per trasformare il mondo di allora. Un discorso alla fine lucido e coerente sul caso, il destino, la storia, le piccole azioni e i grandi uomini, o presunti tali.
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