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Anno edizione: 2017
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Dei tre brevi saggi qui raccolti, l’ultimo (“Gli scrittori inglesi e l’America”) risulta il più datato e spuntato, con la sua polemica difesa della cultura americana – vitale, ottimista, propositiva – rispetto alla supponente, stantia e recriminatoria letteratura inglese, capace solo di produrre “maligne effusioni della penna di scrittori mercenari”, nell’eterno duello tra civiltà madre britannica e colonizzati yankees. Nei due testi iniziali, invece, lo stile sarcastico di Washington Irving raggiunge con finezza il suo bersaglio. L’autore immagina infatti di visitare le sale sussiegose del British Museum e dell’Abbazia di Westminster, con le loro gelide e silenti biblioteche stracolme di antichissimi, polverosi, “venerandi” volumi, consultati da “personaggi pallidi, cadaverici, sprofondati nello studio”. Nel primo caso (“L’arte di fabbricare libri”) dotti scribacchini scopiazzano idee e stili dei classici, con l’astuto scopo di riutilizzarli nei loro romanzi e nelle loro poesie, per “gonfiare gli esigui rivoletti del proprio pensiero”, producendo, da scrittori predoni, “emanazioni soporifere”. Nel secondo intervento (“Sulla mutevolezza della letteratura”), la biblioteca-catacomba raccoglie pietosamente migliaia di volumi quasi intonsi, ammuffiti e inutili, su cui autori-mummie hanno sudato per decenni nella vana speranza di ottenere l’immortalità letteraria e fama imperitura. Irrisorio, amaro e sconfortato, Irvingi così commenta: “Mi sono stupito spesso della estrema fecondità della stampa, domandandomi come mai tante teste alle quali sembra che la natura abbia inflitto la maledizione del vuoto, siano prodighe tuttavia di copiose pubblicazioni… L’invenzione della carta e quella della stampa … hanno fatto di ognuno uno scrittore, hanno permesso a qualunque intelletto di riversarsi nella stampa e diffondersi in tutto il mondo. Le conseguenze sono allarmanti”.
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