È da tempo che Giancarlo Sturloni, fisico, giornalista e scrittore, esperto in comunicazione della scienza (insegna giornalismo scientifico alla Sissa di Trieste) si occupa di rischio: esemplare il suo Le mele di Chernobyl sono buone. Mezzo secolo di rischio tecnologico (Sironi, 2006). Nell'Atomo diviso riprende il tema, concentrandosi sui molteplici aspetti dell'energia nucleare per uso civile, senza tuttavia trascurare la storia e gli impieghi militari dell'atomo, dalla scoperta della fissione nel 1938 (per cui il chimico tedesco Otto Hahn ricevette il Nobel nel 1945), alle tragedie di Hiroshima e Nagasaki. Ma i capitoli forse più interessanti sono quelli che riguardano le centrali elettronucleari, al centro da decenni di polemiche tra sostenitori e detrattori, polemiche rinfocolate periodicamente dai numerosi incidenti, da quelli minimi a quelli gravissimi, che hanno funestato il cammino di questa tecnologia. Non solo dei sinistri più gravi (Three Mile Island nel 1979; Chernobyl nel 1986; Fukushima nel 2011) si occupa Sturloni, illustrandoli con dovizia di particolari, ma anche delle loro conseguenze sociali, politiche ed economiche. Dopo Chernobyl e dopo Fukushima il mondo non è stato più lo stesso (come del resto dopo Hiroshima): le tragiche conseguenze di questi incidenti (che "non potevano accadere") sulle popolazioni e sull'ambiente hanno dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, che la complessità del reale, interagendo con la complessità delle tecnologie che nella realtà si calano, supera le nostre capacità di anticipazione: sappiamo fare molto più di quanto non sappiamo prevedere. Così la fiducia negli esperti, nelle loro rassicurazioni e nella loro asserita competenza è stata messa in discussione e la percezione del rischio è mutata profondamente. I rapporti tra vantaggi e rischi si sono trasformati e anche se con il passare del tempo le popolazioni, specie se non coinvolte direttamente negli eventi, tendono a dimenticare e a riguadagnare fiducia e ottimismo, si moltiplicano le istanze di una gestione più democratica del nucleare civile (su quello militare, affidato a un controllo centralizzato e ristretto, sembra che non si possa intervenire in alcun modo). Per una concomitanza singolare, nel 1986, l'anno di Chernobyl, il sociologo tedesco Ulrich Beck pubblicò Risikogesellschaft (La società del rischio, Carocci, 2000), un libro di vasta risonanza che indicava la svolta decisiva che le tecnologie moderne, in particolare quelle legate alla produzione dell'energia, hanno impresso alla nozione e alla consapevolezza dei rischi. Gli incidenti avvenuti nelle centrali nucleari, in particolare quelli gravissimi di Chernobyl e di Fukushima, sono stati attribuiti o all'imperizia degli addetti oppure al concorso di circostanze ambientali eccezionali: ma non si possono certo eliminare gli addetti, affidando gli impianti unicamente all'automazione, né si può pensare che le circostanze eccezionali (il terremoto e conseguente maremoto nel caso giapponese) non si debbano o non si possano presentare. Fino a che punto la fame incoercibile di energia spingerà gli esseri umani a superare la paura e ad accettare i rischi connessi con l'uso di questa tecnologia? La quale, naturalmente, presenta molti vantaggi, a cominciare da una produzione relativamente bassa di gas serra. Sotto il profilo economico i vantaggi non sembrano cospicui e gli investimenti nella sicurezza fanno lievitare i costi; inoltre resta ancora insoluto il problema del confinamento e dello smaltimento delle scorie nucleari, che potrebbero inquinare il futuro della terra per un tempo di durata geologica. Sono forse i numerosi aspetti (quasi) irreversibili delle centrali nucleari a renderle molto problematiche. Giuseppe O. Longo
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