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Scriveva Carlo levi che “nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magia” (da “Cristo si è fermato ad Eboli”) e questo romanzo di Grazia Deledda, senza questa “chiave”, rischia di essere inaccessibile al lettore. Infatti, quest’opera, pubblicata nel 1913, è ambientata nel vecchio mondo rurale di Galtellì, in una Sardegna arcaica, pre-moderna, dominata da una religiosità caratterizzata da elementi, cristiani e pagani, che finiscono per mescolarsi conferendo una mentalità superstiziosa ai personaggi in esso presenti. Si racconta di una famiglia nobile ormai decaduta ed ulteriormente disonorata dal comportamento dell’ultimo erede maschio della Baronia: Giacinto. Il filosofo Pascal ha affermato che” L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante” e il titolo dell’opera allude proprio alla fragilità dell’essere umano, che si trova in balìa della tragicità della vita che, con i suoi tiri mancini, lo sferza come il vento, piegandolo e, a volte, riesce persino a spezzarlo. Altro tema fondamentale è quello dell’espiazione: il servo Efix, vero protagonista del romanzo, è un’anima tormentata da un grande senso di colpa. Sarà solo attraverso un personale viaggio di “redenzione” che egli riuscirà a riscattarsi, a perdonare sé stesso e a farsi perdonare dall’Onnipotente, ritrovando così la pace, quella eterna. In questo romanzo è possibile riscontrare alcuni elementi tipici del verismo, altri del decadentismo e persino alcuni del genere gotico. Ai tempi del ginnasio, veniva spesso citato dalla mia insegnate di Lettere ed oggi, a distanza di oltre trent’anni, l’ho letto con piacere. Le sono grato per aver seminato nella mia mente curiosa quel piccolo seme che oggi è germogliato.
Romanzo di fine ottocento inizio novecento,tra le sue righe si mette a nudo non solo una terra aspra e dura,ma anche la fragilità e la durezza di chi ci vive. Infatti oltre ad un'attenta è oculata descrizione dei luoghi,l'autrice mette tutto il suo l'impegno per esplicare il pensiero a momenti fragili e a momenti duri degli isolani di quell'epoca.Ruolo principale ed essenziale è la situazione sociale in cui desta la donna troppo ancorata a futili tradizioni. Alla fine siamo quasi tutti indistintamente canne al vento ci pieghiamo,ci torciamo ma non ci spezziamo
"Canne al Vento" è forse il romanzo più celebre della scrittrice sarda premio Nobel Grazia Deledda: in quest'opera l'autrice offre al lettore la possibilità di immergersi nella realtà sarda di fine Ottocento/inizio Novecento, in merito anche alle splendide descrizioni degli usi e dei costumi della società sarda di quel periodo. I protagonisti non sono solo gli abitanti di Galte (situato sulla costa tirrenica); infatti anche le forze oscure, le forze primordiali ricoprono un ruolo significativo all'interno del romanzo. Presenze oscure come fantasmi, janas (fate), panas (spiriti di donne morte di parto) e nani riescono a dominare l'azione dell'uomo, rendendolo vulnerabile e fragile. Il titolo allude ad una sintonia fra l'uomo e le canne: come il vento piega le canne, così tali forze oscure e primordiali piegano l'uomo. In "Canne al vento" la Deledda tratta in maniera esemplare tematiche tipiche del suo tempo, quali la decadenza della nobiltà (incarnato dalle Dame Pintor, alle quali rimane un umile podere coltivato dal loro fedele servo Efix) e l'inconciliabilità tra il mondo pastorale - rurale della Sardegna di fine Ottocento/inizio Novecento e la realtà moderna ed industrializzata nata in seguito al progresso tecnico - scientifico inaugurato dalla II Rivoluzione Industriale. Questo aspetto è rappresentato nel romanzo dal giovane don Giacinto il quale, proveniente da Civitavecchia, dal "continente" come direbbero le dame Pintor e i loro compaesani, non riesce ad inserirsi nel dimensione atavica, ancestrale e arretrata di Galte e di tutta la Sardegna. Insomma, un romanzo completo ed essenziale, da leggere assolutamente.
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