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Un libro molto particolare, di non facile approccio per chi cerca una lettura veloce e scorrevole. Qui ci si sofferma, come seguendo un pendio appenninico, ci si graffia, si sta in ascolto. Addirittura si può imparare a capire cosa dicono i cinghiali o cosa percepiscono. Tanti personaggi confinati in un paesino che si sta spopolando, in cui i pochi giovani si siedono a fumare e parlare sotto gli alberi o filosofeggiano davanti a film, in particolare western, dove soprattutto ci si racconta. Un paesino ibrido sospeso fra passato e presente, così come Apperbohr, il cinghiale senziente, sta fra la bestialità del branco in cui non si riconosce più e i sentimenti umani non del tutto compresi.
Una narratore fantastico, Meacci. Nulla da dire se non leggete questo libro e mi darete ragione.
La scrittura ricca, arzigogolata e arabescata di Meacci non mette del tutto a proprio agio il lettore, a meno che non ci si sia già fatti le ossa con Celine, Gadda, Joyce Miller, Durrell, Arbasino, Manganelli, Amis, Wallace, Pynchon e compagnia bella, insomma la 'crème' dei clowns-funamboli della parola nella letteratura del secolo XX e XXI. Tra i quali Giordano Meacci può entrare con grande merito e con la fronte cinta d'alloro. Quindi il consiglio è di procedere con pazienza e determinazione fino a pagina 440 per rendersi conto d'aver letto uno dei romanzi più divertenti, intelligenti e originali degli ultimi anni. Una bella lettura.
Recensioni
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Finalista al LXX Premio Strega. Finalista al Premio Procida – Isola di Arturo - Elsa Morante 2016. Presentato da Giuseppe Antonelli e Diego De Silva.
Meacci scrive un romanzo bellissimo, commovente, appassionante, che racconta l’eterno mistero dei nostri sentimenti e lo fa grazie all’antico espediente di trattare le bestie come uomini e gli uomini come una delle molte specie viventi sulla Terra.
Llhjoo-wrahh, amore mio, è questo e solo questo che vorrebbe dirle, ma nella lingua dei rvrrn non esiste una parola così, non c’è il concetto di mio e in definitiva non esiste l’amore che serve per definire o spiegare quello che lui prova; quello che vorrebbe dirle. Così le dice all’orecchio il suo nome, e basta; lei si allontana di poco, gira su sé stessa e gli regala sul grinfio Ap-orbihr; nel modo spezzato che le viene quando grugnisce.
Un branco di cinghiali sciama attorno a Corsignano, un borgo toscano intrappolato a fine degli anni ’90, un paese immaginario tra Spoon River e Twin Peaks, dove se la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda. La cittadella è in realtà un luogo dell’anima, i cui abitanti sembrano incarnare un’italianità destinata a perdersi a cavallo del nuovo millennio. Ad assistere alle derive grottesche delle vicende degli Alti sulle Zampe – gli umani in gergo cinghialesco - è Apperbohr, epico suino dalla sorte bizzarra. In una notte di razzie nei pressi di un orticello viene fulminato da un raggio di luce emesso da un televisore sintonizzato sull’Uomo che uccise Liberty Valance, il western di John Ford del 1962. Da quel momento in poi la bestia percepirà in anticipo l’eco dei propri pensieri, declinati nella lingua degli Alti sulle Zampe, e prenderà gradualmente consapevolezza dell’allontanamento dalla propria natura ferina, assumendo infine una coscienza umana. Apperbohr solitario vagherà incompreso sia dai propri simili sia dagli umani, testimone impotente della fine di un’epoca, confortato solo dalla scoperta del più misterioso dei sentimenti umani: l’amore.
Il cinghiale che uccise Liberty Valance è un romanzo ingombrante, in cui a sorprendere è la densità di strati narrativi, ma ciò non deve spaventare il lettore. Alla complessità della prosa corrisponde infatti una narrazione ben ritmata, alimentata da contrappunti lirici che si innestano maestosamente su una polifonia di personaggi surreali e al contempo molto umani. Il testo è benedetto dal dirompente furore dell’estro di Meacci, la cui penna trabocca a ogni pagina di invenzioni linguistiche, soluzioni letterarie ardite e specialmente di suggestioni cinematografiche. L’autore spinge sul pedale dell’acceleratore per quanto riguarda la scrittura, tuttavia i risultati non sono di impaccio poiché trascendono la sperimentazione fine a se stessa. La prosa è fitta, fluviale e zigzagante, costellata da incisi, subordinate ed infinite digressioni che rimpallano continuamente con dialoghi dal sapore meta-filmico. La ricerca linguistica è ancora più spinta: ai toscanismi rubati dal colloquiale si accompagna la lingua a tratti aulica del narratore. A spiccare è soprattutto l’invenzione dell’idioma dei cinghiali - creato da zero - un Jabberwocky cinghialesco dotato di glossario. La trama è costruita su un gioco a incastri, in cui a farne le spese è la linearità del romanzo, sacrificata per dar voce ad un’enorme quantità di soggetti, tra cui è difficile trovare un protagonista. Forse nemmeno Apperbohr, il cinghiale - bestia arcaica per antonomasia - che assume gradualmente coscienza di sé e dei sentimenti umani, perché egli è più una metafora incarnata che il vero protagonista di questo romanzo corale. I suoi fugaci avvistamenti danno significato e risolvono di volta in volta le vicende narrate, come un deus ex machina munito di vello e zoccoli. Per quanto riguarda gli umani, ogni personaggio sembra preso in prestito dalla commedia all’italiana, il residuo di un immaginario datato, inattuale, confinato a una frontiera in via di trasformazione e in procinto di perdere la propria identità, come accadeva ai malinconici cowboy del film a cui ruba il titolo, il western più crepuscolare di John Ford. La pellicola e il romanzo quindi tendono alla fusione, fino a condividere le tematiche e persino i ruoli, come si evince in modo programmatico sin dalla copertina, raffigurante John Wayne a cui si sovrappone un cinghiale, presumibilmente Apperbohr.
Sarà divertente per il lettore, ma soprattutto per il cinefilo, individuare dove le trame coincidono, dove divergono e carpire l’equivalente cinghialesco del celebre Think Back, Pilgrim!, pronunciato da Wayne verso il finale della pellicola. Mai un grugnito è stato così pregno di amore.
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