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La memoria di molte vite dissolte, la famiglia unico vero controverso centro dell'esistenza di ciascuno, l'eredità vera nel ricordo, l'incapacità di elaborare mai fino in fondo l'infanzia e l'adolescenza, il residuo che accompagna tutti, per sempre. L'America dei primi anni Sessanta: un misto di ossessioni, follie e sogni smisurati. Bel libro.
Recensioni
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Prima di adesso il suo nome aveva fatto capolino sulla stampa italiana per l’eco di un fortunato e appassionante reportage narrativo su Napoli – post Gomorra ma pre Ferrante Fever – che il New Yorker aveva incoronato come libro dell’anno, «di erudizione voluttuosa». Dopo la morte di Philip Roth si era letto che era uno dei suoi più cari amici, uno degli ultimi a restargli vicino fino alla fine. Adesso, però, Benjamin Taylor, texano di famiglia ebraica di stanza nella Grande Mela, curatore dell’epistolario di Saul Bellow, arriva nelle nostre librerie con un memoir densissimo e più che pregevole, in cui rievoca un anno della sua vita (convinto, in un certo senso, che dodici mesi possano ben rappresentare un’esistenza), quello che seguì a una stretta di mano con Jfk, presidente statunitense che sarebbe stato ucciso il giorno dopo. Un colpo all’innocenza, che arrivava dopo alcuni drammi familiari, la morte drammatica di una nonna e di alcuni cugini.
Il clamore a casa nostra (124 pagine, 15 euro), tradotto da Nicola Mannuppelli e pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti, per quanto non perda di vista la Storia con la s maiuscola, che nel 1963 rivoltò gli Usa più di una volta, racconta una vicenda personalissima. Quella di un undicenne in un passaggio fondamentale di crescita: nel suo cuore si fa strada la consapevolezza della propria omosessualità, fra reminiscenze familiari (a cominciare dagli avi andati via dai pogrom in Polonia e Bielorussia e giunti in America grazie al banchiere e filantropo Jacob Schiff), aneddoti di vita (a Fort Worth, in Texas, ma non solo), riflessioni intime e un commovente autoritratto, quello di uno studente che era un disastro negli sport di squadra e furtivamente spiava corpi nelle docce. Figlio di ebrei benestanti, assimilati e non particolarmente pii, di una famiglia che tendeva a cancellare le emozioni (triste, solenne, soprattutto quella paterna), ad annacquarle, Taylor è in qualche modo spietato con il giovanissimo che fu.
Non smette di esplorarsi e di esplorare le vite dei propri cari, Taylor – una carriera accademica di successo e pochi apprezzati libri – che scoprirà anche di soffrire della sindrome di Asperger, che sarà il primo in famiglia a non parlare yiddish, che non tiene conto, nel suo narrare, dei vincoli della cronologia e che, pur raccontando, eventi vissuti (Jfk a parte, nessuno choc, né abusi, né alcolismo, né divorzi o povertà, che in certi memoir fioccano…), sa renderli splendidamente letterari, con una scrittura a tratti chirurgica, a tratti lirica, facendo dialogare giovinezza ed età adulta, provando ad “abitare” il passato, riflettendo sull’infanzia e sul tempo che trascorre.
Recensione di Giovanni Leti
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