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Un libro autobiografico che non vuole presentarsi come tale, raccontatao attraverso i ricordi che furono. Una fusione tra ciò che può essere realmente accaduto e ciò che ancora deve accadere e che, forse, non accadrà mai.
Un’anziana donna vive in una stanza in penombra, circondata da statue di legno che accarezza delicatamente. Le ha scolpite un uomo selvatico, un amante segreto con cui mai si è potuta mostrare al mondo. Un legame profondo, accomunati da un’infanzia dolorosa e da un’esistenza dura e faticosa tra i monti, li ha uniti attraverso anni d’incontri dolci e fugaci. Ora, al tramonto della vita, il sentimento si è trasfigurato in sogno, non hanno più bisogno di parole, comunicano attraverso il bosco e i suoi animali fino all’ultimo giorno, non più temuto ma liberatorio, lontano dalla società degli umani. La presenza femminile rimane sempre, come nella descrizione iniziale, nell’ombra, è l’uomo, il protagonista. E’ un racconto ampiamente autobiografico, nonostante la premessa “Ogni riferimento... ” e leggendo si capisce il perché: tra le pagine è nascosto l’accenno a una fiaba nerissima, di cui l’autore sembra quasi promettere il seguito. Un libro diverso dagli altri dello scrittore ertano, una riflessione sulla vecchiaia e sulla morte, sul desiderio di isolarsi dal mondo, di deporre le armi con cui sempre l’ha combattuto, ma forse un po’ ripetitivo. La vita scorre e passa sopra di noi, sassi nella corrente. Ogni uomo è solo e tutto ciò che fa, scrivere, scolpire, scalare, amare e odiare, lo fa x se stesso ed è destinato a scomparire nella polvere dell’oblio. Alla fine, Corona non racconta quasi nulla, solo le proprie riflessioni e la propria filosofia, ma il libro mi è piaciuto, forse perché condivido molti suoi punti di vista. La solitudine in comunione con la natura, generosa o spietata, è più appagante della chiassosa comunità degli umani. Lo stile è affascinante, con periodi brevi, semplici e incisivi.
Mi pare che Mauro Corona stia invecchiando troppo rapidamente, perché altrimenti non si spiegherebbero in altro modo libri come La voce degli uomini freddi e questo Come sasso nella corrente, opere che, per quanto diverse, segnano a mio avviso un calo della creatività e, soprattutto, un accentuarsi di qualche difetto che prima invece era quasi sporadico. Già avevo stigmatizzato La voce degli uomini freddi, incredibilmente candidato al Premio Campiello, e ora non posso fare a meno di essere scontento di Come un sasso nella corrente, una sorta di lascito dell'autore, che è una via di mezzo fra la necessità di volgersi all'indietro e fare un bilancio della propria esistenza e un memoriale, con cui ripercorrere il passato dandogli ordine. L'inizio, in verità, mi ha folgorato, con un ritmo giustamente lento e un quadro, in cui sono più gli scuri che i chiari, e che può far ricordare certe opere dei pittori fiamminghi del rinascimento. Tuttavia, pagina dopo pagina, pur in presenza di accenni poetici, la scrittura è diventata sempre più verbosa, con la presenza di similitudini non sempre felici, tanto che in me è subentrato un senso di noia. L'assenza di dialoghi, poi, non fa che peggiorare la situazione, così che diventa sempre più difficile andare avanti, anche perché ho ricavato l'impressione che Corona gridi questa sua verità a un muro e non al lettore stesso. Fino a che punto sia stato sincero non lo so, ma mi resta più di un dubbio e questo non giova a un'opera in cui l'autore dovrebbe aprirsi, anche sfacciatamente, al mondo. Resta comunque il fatto, e credo che questo giudizio sia difficilmente contestabile, che in Corona si assiste da un po' di tempo a un'accentuata involuzione, come se oltre a non aver più nulla da dire, continuasse a scrivere più per se stesso che anche per i lettori. Si spiegherebbe così come mai un narratore che fra le sue caratteristiche aveva anche quella di una straordinaria leggerezza di esposizione sia diventato greve come un macigno.
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