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«Tra Bachmann e Callas si è insinuato il desiderio di un'altra voce, la voce umana della vita, dell'amore, di un'arte che non mortifichi la bellezza riducendola a intrattenimento, di una libertà che non costringa una donna a mentire. Attraverso il loro incontro anch'io ho sentito risuonare una voce che conoscevo, familiare e insieme sorprendente, che non mi chiedeva di diventare un'altra, ma di riconoscere che si paga un prezzo, quello del distacco e dell'impersonalità, quando la si tiene nell'ombra.»
Milano, 1956. La scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann assiste al Teatro alla Scala alla prova generale di Traviata con la regia di Luchino Visconti, la direzione di Carlo Maria Giulini e Maria Callas nel ruolo di Violetta. Quell'esperienza la scuote al punto da farle scrivere: «Che cosa sia la grande arte, che cosa sia un'artista l’ho capito il giorno in cui ho ascoltato la cantante Maria Callas». Le parole che, a distanza di anni, la scrittrice dedica a quell'incontro testimoniano qualcosa che va oltre l'ammirazione per una grande interprete ;in esse risuona un messaggio che toccala vera natura dell'arte e la sua capacità di avvicinarsi all'assoluto, di incarnare qualsiasi esperienza. Ma cosa era successo quel pomeriggio? E cosa ci racconta, oggi, quell'incontro, di noi? Per comprenderlo, Laura Boella è andata a caccia delle due artiste che, dietro la maschera del mito – due "Divine", nei rispettivi campi – hanno vissuto, ciascuna a suo modo, “sul filo del rasoio”. Prigioniere del pregiudizio, ostaggi della notorietà, pericolosamente esposte; eppure, e forse proprio per questo, capaci di far risuonare, nella sua irriducibilità, la propria voce: "una voce umana".
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