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Premiato debutto letterario, a ragion veduta, il libro racconta in forma di romanzo la storia di Fernand Iveton, operaio francese, militante comunista, che per ribellarsi al regime colonialista in Algeria, nel '56 piazzò una bomba all'interno di alcuni locali abbandonati della fabbrica dove lavorava. Il dettaglio non è banale: Iveton voleva lanciare un messaggio udibile ma senza vittime. Sapeva di essere un uomo, non un giudice. La bomba non esplose e tuttavia venne arrestato, torturato, condannato a morte. A nulla valsero le dimostrazioni di solidarietà, gli appelli e i ricorsi. La Francia lo mandò al patibolo. Anche loro vollero lanciare un messaggio, ma colpendone uno. Giudici, strateghi, non uomini. Il libro alterna ai giorni di carcere i flashback del suo passato, l'incontro in Francia con la donna della sua vita, il ritorno in Algeria, il consolidarsi di idee politiche, la morte di un compagno come Henri Maillot, ma anche momenti ordinari, alcuni pervasi di grandissima tenerezza. Ciò che Andras crea utilizzando questo stile non è una spirale che conduce il protagonista verso l'irrimediabile fine. Al contrario restituisce il ritratto di una persona ingenua, idealista, vittima sacrificale dello Stato che ancora oggi dovrebbe provare vergogna.
La tragica e poco conosciuta, storia di Fernand Iveton, militante comunista franco-algerino, che pagherà con la vita la sua lotta a favore dell'indipendenza del suo paese di nascita. Un racconto che ben descrive il clima che si respirava nella colonia francese nel secondo dopoguerra, e che mette in risalto anche la figura della moglie del protagonista, donna di un carattere e di una fierezza impareggiabili.
Recensioni
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Colpiscono sempre i gesti inattesi e provocatori nel panorama letterario, che puzzino di marketing oppure no.
Colpì Pasolini quando nel ’68 ritirò dalla competizione del premio Strega il suo romanzo Teorema, per non parlare di Sartre che qualche anno prima – correva il 1964 – oppose il gran rifiuto addirittura al Nobel che gli era stato assegnato, adducendo come motivazione l’incapacità di indossare uno smoking. Colpiscono anche gli scrittori fantasma, nella storia della narrativa e dell’editoria: qualcuno ricorderà il caso di Romain Gary, che si aggiudicò lo stesso premio letterario due volte – la prima volta col suo nome, la seconda sotto lo pseudonimo di Émile Ajar – oppure, per restare in casa, si pensi al mistero che si cela dietro il nome di Elena Ferrante.
Joseph Andras, che ha esordito con una potentissima opera prima – Dei nostri fratelli feriti (140 pagine, 16 euro), Fazi editore, tradotto da Antonella Conti – si colloca nel solco di quegli scrittori di cui sopra. Poco sappiamo di questo autore, ma abbastanza per restarne colpiti, perché Andras – si legge nella fascetta del libro – ha rifiutato il premio Goncourt Opera Prima 2016, rilasciando una dichiarazione che non lascia spazio a interpretazioni:
«La compétition, la concurrence et la rivalité sont à mes yeux des notions étrangères à l’écriture et à la création. La littérature, telle que je l’entends en tant que lecteur et, à présent, auteur, veille de près à son indépendance et chemine à distance des podiums, des honneurs et des projecteurs».
Parole che stupiscono forse a primo acchito, ma che a lettura conclusa appaiono coerenti con lo spirito del romanzo, perché Dei nostri fratelli feriti appartiene a quella letteratura che oggi ci manca, la letteratura impegnata, che ha come obiettivo la denuncia, la rivalsa dei più deboli e la verità storica.
La storia che Andras narra, infatti, è ambientata nel 1956, in piena Guerra d’Algeria, un episodio della decolonizzazione spesso sbolognato in pochi capoversi dai manuali di storia e su cui invece andrebbe fatta luce, un conflitto che vide il FLN – Fronte di Liberazione Nazionale, di stampo comunista e bombarolo – fronteggiare la Francia colonialista per separarsene; un conflitto, paragonabile al nostro Risorgimento, che ha mietuto circa un milione di vittime tra le fila di un popolo, quello algerino, che allora contava appena dieci milioni di persone.
Dei nostri fratelli feriti è la storia di Fernand Iveton, militante del FLN, condannato alla pena capitale dal governo coloniale francese di Rene´ Coty e Franc¸ois Mitterand.
Fernand è un uomo giusto. Di passaporto algerino, sposa una francese: Helene. Dalla fortissima passione civile e da un altrettanto intenso amor di patria, non può restare inerme all’occupazione del suo paese; per combattere questa ingiustizia sposa la causa del FLN, confluendo nelle frange più radicali e nella lotta armata. Il romanzo narra di un’azione dimostrativa che Fernand avrebbe dovuto compiere: piazzare una bomba in una centrale di gas controllata dai coloni, azione che però fallisce a causa di una soffiata e del conseguente arresto di Fernand.
Il protagonista non è un sanguinario, nella sua azione di sabotaggio si preoccupa di non coinvolgere civili innocenti, tuttavia in un’Algeria inasprita dalla guerra bisogna punire il nemico, fosse anche un solo uomo, per dare un messaggio duro e chiaro ai sostenitori del FLN. Strazianti sono le pagine in cui Andras descrive le torture inflitte a Fernand, straziante è la sofferenza del protagonista che prova a resistere al dolore piuttosto che rivelare i nomi dei compagni.
Dei nostri fratelli feriti è un romanzo che non fa sconti né che si perde in inutili descrizioni. ? un romanzo asciutto, che non perde tempo, com’è chiaro dall’incipit in medias res che ritrae Fernand quattro minuti prima dello scoppio della bomba appena piazzata.
«Non quella pioggia schietta e fiera, no. Una pioggia misera. Stenta. Poco convinta. Fernand aspetta a un paio di metri dalla strada asfaltata, al riparo di un cedro. Avevano detto le tredici e trenta. Mancano ormai solo quattro minuti. Le tredici e trenta, sì, esatto. Insopportabile, questa pioggia subdola, nemmeno il coraggio di venire giù a catinelle, di quelle belle grosse, macché, giusto due gocce tignose per bagnare la nuca in punta di dita e cavarsela così. Tre minuti. Fernand non stacca più gli occhi dall’orologio. […]»
Prosa incalzante, effetto mai retorico
La prosa di Andras è incalzante, una terza persona che riporta i dialoghi senza punteggiatura e in cui la narrazione si intreccia ai flussi di coscienza. L’effetto è magistrale, mai retorico. Bello pure l’intreccio narrativo. Sembra che l’autore segua l’unità spazio-temporale di Aristotele: la narrazione si concentra in un tempo piccolo (la cattura di Fernand, la tortura e la detenzione) e da questa linea temporale si irradiano i flashback che ripercorrono la storia d’amore tra Fernand ed Helene.
Aristotelica è pure la catarsi del lettore alla fine del libro.
Pelle d’oca e rabbia, epopea di un uomo qualunque.
Recensione di Dario Levantino
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