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mi aspettavo di più vista la quarta di copertina
Bellissimo, narrazione forte, un libro che vuol dimostrare quanto il mondo sia ormai davvero spietato.
Bellissimo libro, deliziosamente rinfrescante nella sua ferocia, colpisce spietatamente a 360 ° ma lo fa con una scrittura di una grazia e finezza incredibili. E' impossibile non essere catturati fin dalla prima pagina e confesso che non ho potuto fermarmi fino all'ultimo rigo, condotta per mano in un vortice di gironi infernali in cui il protagonista si aggira con l'incoscienza dell'innocente e la perfidia del complice a denti stretti; segue un produttore-mostro fino all'apoteosi del male e del nulla assoluto; umilia la sua cultura in una scuola privata dove le signore mamme della camorra "contano i capelli in testa" ai loro rampolli, e guai a chi ne torce uno; provoca risate omeriche in un assessorato ipotizzando che l'assessore si possa dimettere; distruggendo, in un finale indimenticabile e grottesco, il mito della trasgressione maschile (e anche femminile) a buon mercato; e infine, con autentica tenerezza, è "contento", perché esiste l'odore bellissimo della famiglia, sede e fonte di ogni ambiguità, causa di ogni rassegnazione e complicità, ma depositaria della speranza in un mondo impossibile nel quale bisogna pur vivere ogni giorno... Come napoletana, e come abitante dell'inferno di Napoli in questa generazione, mi sono ritrovata in questo romanzo come se l'autore mi avesse spietatamente messo davanti uno specchio, uno specchio che non mostra quello che gli specchi normali fanno vedere, ma mostra il mondo intorno a noi e noi in esso. Allora, se la grande letteratura è capacità di creare cultura, cioè conoscenza della realtà - e di conseguenza, crea lo strumento per cambiarla, la realtà - questo libro è un grande libro, e questo scrittore è un GRANDE scrittore. E' un libro fresco, crudele, tenero e delizioso, che ha sfiorato il Premio Strega, e che fa ben sperare per ciò che in futuro ci porterà l'autore.
Recensioni
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"C'erano solo quattro fili d'erba sulla terra riarsa dal sole, e un'afa terribile che spaccava il culo ai cardellini. Dal cielo appena velato scendevano giù lingue di fuoco e un silenzio mortale avvolgeva la campagna stanca. I buoi bavavano stravaccati sui covoni, accanto agli aratri infuocati" (Massimo Cacciapuoti, Pater familias. Romanzo di ragazzi napoletani, Castelvecchi, 1998). "Forse non è il massimo della consuetudine iniziare un romanzo con una postilla, anche perché, come scoprirete leggendo, c'entra pochissimo con la storia. Eppure è fondamentale. Voglio dire, senza questa postilla non avrei mai cominciato a scrivere. E probabilmente neanche a vivere" (ancora Cacciapuoti, Esco presto la mattina, Garzanti, 2009). In mezzo a questi incipit, così differenti da sembrare scritti da persone differenti, ci sono undici anni di vita e altri due romanzi, tutti e due pubblicati da Garzanti: L'ubbidienza (2004, misteriosamente fuori catalogo, quand'è senza dubbio il lavoro più compiuto dell'autore) e L'abito da sposa (2006). Da Pater familias fu tratto anche un film, diretto dall'esordiente Francesco Paterno, che vinse un David di Donatello come miglior regista al debutto, ma non fu premiato da altrettanto successo di pubblico. Tutto questo per dire che Cacciapuoti è un autore consolidato, magari privo di quella che Gianni Brera chiamava classe internazionale certa, e intanto di qualche notorietà.
Una caratteristica meritoria dello scrittore era, fino a questo romanzo, la capacità di sintesi. Non si era mai spinto oltre le duecento pagine, i romanzi scorrevano rapidi, forti di una lingua tendente discorsiva e insieme non priva di finezze. Con Esco presto la mattina, Cacciapuoti prova a cambiare. La taglia, che era una media di buona vestibilità, diventa una scomoda extralarge: se L'abito da sposa misurava 179 pagine e svolgeva la sua riflessione sui problemi del Sud con allegria quasi svagata, quest'ultima prova ha un'interpretazione autentica del tenore seguente: "Dopo Saviano è difficile raccontare la camorra in modo diverso e più alto da come ha fatto questo scrittore che io, con Cantone, don Peppino Diana e Renato Natale considero un eroe, per questo ho voluto cercare una visuale diversa per raccontare le stesse crude verità (sic). Ma il mio romanzo ha precisato Cacciapuoti è anche tanto altro. È una storia di precarietà lavorativa e affettiva, in cui emergono poche figure forti, nel grigiore predominante, come quello della moglie di Andrea, Anna, o del produttore cinematografico Piccolo" (da www.ilnolano.it, 23 marzo 2009, n. 92).
A tali e tanti intendimenti corrisponde, purtroppo, il quasi raddoppio del conto pagine, che arriva infatti a quota 329. Beninteso, ogni spiegazione è lecita. La storia d'amore fra Andrea Dell'Arti, il trentacinquenne più o meno autobiografico, e la moglie Anna, per quanto già vista e letta, richiede tempo e spazio. Altrettanto quella del favoloso produttore Massimo Piccolo e di Luigi Bodoni, attore rocambolesco che non è immemore del Marco Pulici interpretato da Michele Placido nel Caimano di Nanni Moretti. Di rilievo certo non minore, almeno agli occhi dell'autore, è la presunta satira sulla burocrazia e sugli intrallazzi nella pubblica amministrazione campana. Il punto è un altro. Tutta questa materia è riducibile a tre-quattro spunti narrativi, per lo sviluppo e l'intreccio dei quali non c'è bisogno di troppe parole, troppi dialoghi, troppe descrizioni d'ambiente. Esco presto la mattina è, in sintesi, un romanzo ipertrofico; e non bastano la simpatia dell'autore e il suo senso dell'umorismo a impedire che il lettore anche meglio disposto, da pagina 180 circa in poi, cominci a domandarsi quando arriva la fine.
Il problema non investe soltanto Cacciapuoti ed è anzi uno degli stemmi meno prestigiosi di molta narrativa italiana recente. Che bisogno aveva il pur bravo Giuseppe Culicchia di spendere 401 pagine per Brucia la città, appena uscito da Mondadori? E, l'anno scorso, erano davvero necessarie al giovanissimo Alcide Pierantozzi 529 pagine per raccontare L'uomo e il suo amore? A questo punto, dimostra più coraggio e con ogni probabilità più talento Antonio Scurati, quando, con Una storia romantica (Bompiani, 2007; cfr. "L'Indice", 2007, n. 12), si prova in un tentativo folle e, ha ragione Alberto Casadei, sostanzialmente fallito di rappresentare la realtà con parole. A Massimo Cacciapuoti, che aveva convinto soprattutto con L'ubbidienza, una sommessa proposta: riguardi, anche se l'ha mandato a memoria tanto tempo fa, I basilischi (di Lina Wertmüller, 1963, con Stefano Satta Flores e Flora Carabella) e dal quel film riparta.
Giovanni Choukhadarian
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