The Longman Companion to Victorian Fiction, l'indispensabile manuale curato da John Sutherland di cui nel 2009 è uscita un'edizione ampliata e corretta, offre le schede bio-bibliografiche di novecento autori dell'epoca vittoriana, e non ci sarebbe da stupirsi se un'edizione ulteriormente aggiornata ne contenesse un numero ancora più alto. L'enormità del fenomeno targato "Victorian Fiction" non riguarda certamente solo le sue dimensioni ma anche la qualità e la varietà delle opere letterarie che ha prodotto. La sterminata produzione di autori e autrici vittoriane è una vera e propria miniera per gli editori più accorti. Questi tesori letterari non si limitano infatti ai romanzi di grandi scrittori quali Anthony Trollope, Wilkie Collins o le sorelle Brontë, ma interessano anche la produzione di centinaia di autori e di autrici oggi poco noti e nella maggior parte dei casi completamente sconosciuti o dimenticati. In quest'ambito, benvenuta è anche la proposta delle edizioni Fuorilinea di un testo scomparso dalle librerie italiane da oltre settanta anni e che ancora oggi è in grado di fornire interessanti riflessioni sul ruolo e l'importanza di questo fenomeno. Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) è associato soprattutto alla sua famosa serie di romanzi polizieschi che hanno come protagonista Padre Brown, e relegato perciò ad autore di letteratura per ragazzi o d'evasione. Eppure, fu un prolifico scrittore di romanzi, poesie e aforismi, ma anche di saggi e di articoli giornalistici. La sua conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1922, accentuò le sua visione critica delle ineguaglianze prodotte dal sistema economico liberista. Nel suo stile ridondante e ciarliero (che per il lettore contemporaneo può risultare piuttosto fastidioso), Chesterton propone in questo suo saggio un'analisi politico/morale del ruolo svolto dagli scrittori britannici dell'Ottocento nella rappresentazione del mondo nato dalla rivoluzione industriale. Chesterton sembra però non rendersi conto che anche quell'1 per cento di autori da lui elencati (rispetto ai novecento del volume di John Sutherland) non sarebbe mai esistito se anche l'industria editoriale britannica non avesse beneficiato delle nuove condizioni del mercato. La storia della letteratura dell'età vittoriana è infatti strettamente legata allo sviluppo economico e sociale del Regno Unito, nello specifico a quello dell'industria editoriale. Gli eventi che ne determinarono lo sviluppo furono politici, ovvero l'abolizione delle cosiddette
Taxes on Knowledge (tasse sulla conoscenza) e l'emanazione di leggi sull'educazione obbligatoria, e tecnologici, ovvero le innovazioni nel campo della stampa, della carta e della distribuzione che permisero una drastica riduzione dei costi di produzione e di diffusione dei libri. Gli editori scoprirono presto che il mercato aveva subito profonde trasformazioni e che si stavano ora rivolgendo a una nuova massa di utenti in continua espansione che, per caratteristiche e dimensioni, non era paragonabile ad alcuna realtà conosciuta fino ad allora. Quale messaggio dare a quella nuova "readership" affamata di storie e sensazioni? Quali risposte fornire a una massa di lettori provenienti dalle classi sociali più disparate che era terribilmente bisognosa di essere educata? In che modo gli intellettuali si fecero interpreti di un così rapido processo di espansione? Furono in grado di fornire orientamenti etici o almeno chiavi di lettura degli enormi cambiamenti socioculturali che stavano trasformano il Regno Unito nel più grande impero del mondo? Certamente furono consapevoli di una rottura con il passato e dell'esigenza di rispondere alle necessità del proprio tempo con un rinnovato impegno all'azione. Necessità che si traduce in quello che Chesterton definisce nel suo saggio il rifiuto del "compromesso vittoriano". Concetto chiave che il polemista cerca di chiarire in diversi momenti del testo. Con "compromesso vittoriano" Chesterton intende quel "patto tra la ricca borghesia e l'antica aristocrazia, un patto che entrambi dovevano sottoscrivere, per il comune e congeniale scopo di tenere sotto controllo il popolo inglese". La grandezza dei più alti esempi di letteratura vittoriana è da cercare quindi, secondo Chesterton, nella volontà di tanti scrittori e poeti d'infrangere quel "compromesso". La paradossale premessa alla sua analisi è data dalla constatazione che "verso la fine del XVIII secolo il più importante evento della storia inglese è accaduto in Francia. Può sembrare ancora più assurdo, ma sarebbe ancora più preciso, dire che il più importante evento della storia inglese fu quello che non accadde mai: la Rivoluzione Inglese, sulla falsariga della Rivoluzione Francese". "La rivoluzione fallì scrive Chesterton perché fu sventata da un'altra rivoluzione: una rivoluzione aristocratica, una vittoria dei ricchi sui poveri. Fu all'incirca in questo periodo che le
common lands furono recitante una volta per tutte (
) Il risultato fu che, sebbene in Inghilterra abbondassero idee rivoluzionarie, non avvenne alcuna rivoluzione". Chesterton sostiene quindi che, se alla fine ve ne fu una, la rivoluzione dell'era vittoriana fu tutta "letteraria", anche per la sua "indipendenza ed eccentricità". I paladini della resistenza alle ciniche leggi dell'utilitarismo furono essenzialmente autori come Charles Dickens o Robert Louis Stevenson, che si fecero interpreti del disagio sociale che percorreva l'Inghilterra della seconda rivoluzione industriale e che, nei loro fortunati romanzi, denunciarono, secondo Chesterton, la progressiva perdita dei valori dell'individuo, a favore di quelli ben più discutibili del profitto e del progresso. Nella sua analisi della rappresentazione dell'era vittoriana nell'opera di saggisti, polemisti, romanzieri e poeti vittoriani, Chesterton non perde la sua vena satirica e polemica. Di William Makepeace Thackeray scrive che "non sapeva come andavano le cose: era troppo vittoriano per capire l'epoca vittoriana", mentre la popolare scrittrice vittoriana Ouida (sarebbe da riscoprire) "riuscì a essere una Emily Brontë assai più pazza e meno cristiana", oppure Wilkie Collins sarebbe riconoscibile per "le sue concezioni morali e religiose tanto meccaniche quanto la struttura dei suoi romanzi". E comunque, senza Edward Bulwer Lytton "non avremmo l'età vittoriana" (e neanche il famoso incipit del romanzo di Snoopy). Mentre a Lewis Carroll dobbiamo l'invenzione della vera novità di quell'epoca: "Una cosa chiamata
nonsense". L'unico davvero capace di lanciare strali letali "contro l'appagamento che stava al centro della vita vittoriana" è però Charles Dickens, che denunciò la doppia morale dell'epoca e la disumanizzazione dei rapporti nella società moderna. Nota finale: in un saggio così ricco di rimandi ai tanti autori sarebbe stata auspicabile una più accurata cura delle note esplicative. Chesterton omette spesso il nome proprio del personaggio di cui parla (per esempio Kingsley, Ruskin, Rossetti ecc.), omissione che viene inspiegabilmente riproposta nella maggior parte delle note bio-bibliografiche e nell'indice dei nomi. Elisabetta d'Erme