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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2024
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è diventato il mio libro preferito. Mi ha fatto commuovere e ridere allo stesso tempo e il fatto che i dialoghi siano scritti in dialetto lo considero uno dei pregi del libro.
La Storia e le storie si intrecciano in questo libro sotto gli occhi di Evelina e dei sui fratelli. Occhi che vedono atrocità assolute e assoluti atti di coraggio e giustizia. Ma la purezza e l'innocenza dei bambini riescono a trasfigurare la realtà e così si può credere che ci sia una principessa nascosta sotto la stalla e che i morti camminino nella notte. Soprattutto si può credere alle fate ( e io ci ho creduto). Per tutto il romanzo Evelina è accompagnata da due fate:la Nera e la Scepa. Più che fate in senso tradizionale io le ho viste come una sorta di numi tutelari della famiglia. Infatti più di una volta Evelina e la sua famiglia se la cavano perchè avvisati del pericolo dalle due, custodi silenziose e accorte. Sia la madre che la nonna dei bambini ne parlano; vogliono assecondare le loro fantasie o le fate esistono veramente? A me piace pensare che sia così. Il romanzo è impreziosito dall'uso del dialetto marchigiano in quasi tutti i dialoghi; personalmente non l'ho trovato troppo difficile da capire.
Trasfigurate attraverso gli occhi di una bambina, anche le storie di crudeltà, miseria, generosità, delazioni e paura che la guerra porta sempre con sé appaiono pur sempre aspre ma un po’ più ovattate, e la presenza di fate, il ricorso a spiegazioni fantasiose che la piccola protagonista crea o accetta, lungi dal minare la credibilità di quanto narrato, la esaltano se interpretate come futili ma apparentemente uniche vie di fuga rispetto a un presente inaccettabile. Mi è piaciuto dunque il “taglio” dato al racconto, ma non molto il linguaggio usato: il dialetto marchigiano mi è apparso piuttosto ostico (molto più del siciliano di Camilleri, ripensandolo nel momento in cui l’ho letto per la prima volta), e spesso, invece di dare un colorito più spontaneo ai dialoghi, mi è sembrato che facesse da zavorra al procedere della storia, che rallentasse oltre misura il ritmo scandito dall’alternarsi di piccoli quadretti familiari e rurali (quasi come se non ci fosse la guerra) e di episodi in cui a dominare sono le brutture che le vicende belliche portano sempre con sé. E riconosco che probabilmente, parte della mia opinione negativa sul linguaggio usato deriva direttamente dalla nota iniziale: a che scopo dichiarare che il dialetto riprodotto non è reale ma solo frutto di una ricostruzione volta a creare un (mi si passi il termine) esperanto marchigiano-romagnolo, e contrapporre tale dichiarata irrealtà alla realtà dei personaggi e dei fatti narrati (aggiungendo la precisazione “fate incluse”) ? A mio avviso, questa nota ha ottenuto l’effetto contrario a quello che si prefiggeva e ha inficiato, e non poco, il tocco di magia, di fiaba, di ingenuità infantile su cui il romanzo avrebbe potuto contare per distinguersi un po’ (se in meglio o in peggio dipende dai gusti) nell’ingente mole di romanzi che vertono sugli stessi temi.
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