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Anno edizione: 2014
Anno edizione:
Anno edizione: 2013
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Sottile autobiografia di Roth, che rivela i primi fatti della sua vita, insieme ad altri che son dietro i suoi primi romanzi, in una lunga lettera al suo caro Zuckerman, personaggio delle sue opere che più gli somiglia. Il modo è interessante, la storia forse meno, o almeno fino a che non prendere la parola Zuckerman, solo allora viene fuori l'acume, l'ironia, l'intelligenza di philip roth. Solo nelle parole della sua creatura diventa veramente biografo di se stesso, rivelando la vera storia delle sue ragioni, delle sue intenzioni. Libro dunque interessante, sia per i fatti narrati, sia per l'arguzia con cui tutto quello che viene raccontato è subito dopo capovolto.
Scrivere come potere taumaturgico, come bisogno per uscire fuori da una disistima profonda. Roth non dà enfasi alla sua autobiografia, sembra un entomologo. La scrittura è sempre una panacea contro gli sbandamenti del cuore, contro l’odio e l’amore. La parte migliore. Lo stile di Roth, unico e bellissimo, è tradotto con maestria da Vincenzo Mantovani.
La sensazione che ricavo dalla lettura di questa falsa autobiografia, dopo aver letto tanti romanzi di Roth, è che fosse un esercizio di cui lui sentiva il bisogno (forse su suggerimento del suo analista, visto che in quel periodo era in cura per lo stress postoperatorio di una peritonite che lo aveva messo a dura prova anche mentalmente) ma i suoi lettori molto meno. Dal modo in cui racconta porzioni selezionate del proprio passato, infatti, non si fa luce sui momenti decisivi della trasformazione dell'uomo in autore, e nemmeno si penetra nel sottosuolo che dovrebbe contenere l'energia che lo ha spinto in quella direzione. Non che lo scopo potesse essere quello di saperne di più su di lui, ma almeno di capire qualcosa in più sulla sua vicenda di uomo, quello sì. E in sostanza ciò non accade, il che è una delusione. Sa poi di puro artificio l'idea di fingere una replica della sua creatura Zuckerman, la cui voce va ad aggiungersi al coro di quanti ciriticano continuamente l'autore; al massimo, in questo modo, si trova la conferma che Philip Roth - almeno per molti anni della sua vita - ha sentito gravare sulla sua testa in modo eccessivo il giudizo altrui. Ma anche questo era già noto! «La mia ipotesi è che tu abbia scritto così tante metamorfosi di te stesso da non sapere più né chi sei né chi sei mai stato» (p. 169), scrive il falso alter ego. Ecco, forse non è il caso di continuare un'indagine del genere che, oltre a rivelarsi impossibile, finisce per risultare inutile.
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