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Filologia dell'anfibio. Diario militare - Michele Mari - copertina
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Filologia dell'anfibio. Diario militare
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Filologia dell'anfibio. Diario militare - Michele Mari - copertina

Descrizione


Già il destino di essere nati non è privo di stranezza, ma all'interno della condizione umana vi è qualcosa di più strano: il servizio militare. Michele Mari racconta in queste pagine la sua esperienza da recluta nella caserma Gaetano de Cordevolis di Como, nell'Anno del Signore 1979. Le sue descrizioni della vita in un C.A.R. (Centro Addestramento Reclute), lucide e visionarie al tempo stesso, sono pervase dal sentimento agghiacciato del neofita a contatto con una realtà incomprensibile e aliena, eppure rese lievi da un'ironia classificatoria e da un incongruo furore filologico, dissacrante, che tiene a distanza le cose usando le lunghe pinze di una lingua e di uno stile arcaici e preziosi, capaci di far risaltare all'ennesima potenza la surreale assurdità del tutto. Ecco allora la minuziosa disamina del cubo e delle intrinseche motivazioni per cui l'istituzione militare lo idolatra a tal punto; l'epico resoconto della fila alla mensa di mezzogiorno e della corvè in infermeria; la quotidiana lotta con l'armadietto zeppo da esplodere, l'addestramento con le armi, gli oscuri dilemmi sui gradi e le gerarchie militari, le celle di rigore e l'adunata, la libera uscita e l'attesa delle "destinazioni": tutti i riti e i tic di quell'"enorme, flagrante demenza, non priva di una sua astuzia tignosa, che è l'istituzione militare".
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Dettagli

2009
2 luglio 2009
234 p., Brossura
9788842090366

Valutazioni e recensioni

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Momafate
Recensioni: 2/5
Anche meno

L'idea è bella e nell'insieme sarebbe anche carino come libro se non fosse scritto in un italiano volutamente troppo difficile da comprendere e a tratti indecifrabile. Peccato.

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Recensioni: 5/5

Dopo “Tu sanguinosa infanzia”, anche con “Filologia dell’anfibio” mi è sembrato di entrare in una wunderkammer, una stanza delle meraviglie. Questa, in quanto prima forma di museo, ci richiama al concetto di passato da preservare; e per Mari - lo dice lui stesso - “vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato”, arricchire il proprio museo di esperienze, e non poterselo lasciare alle spalle, ma farne la propria membrana protettiva, una sorta di placenta ideale da nutrire e attraverso cui nutrirsi e attraversare il presente. Mari soldato è ormai adulto ma non abdica al suo “sé”. Avanza, lui, colto e ricercato, dentro questo contesto di gerarchie e regole militari in collusione e commistione con la rozzezza delle camerate e la bolgia linguistica e culturale che le animano. Avanza concedendo alla promiscuità quel tanto che basta di se stesso, non superando mai fino in fondo il conflitto con le sue manie, le sue idiosincrasie, il suo essere altro da quel contesto. È il gusto per la filologia che lo lega a quel momento. La necessità di una disciplina che, riordinando, catalogando, mettendo in elenco, raggiunge e svela il cuore dell’esperienza. Il soldato Mari, di questa necessaria partenza, sceglie di conoscere e capire quel mondo perché solo così potrà farlo diventare vissuto che si aggiunge al passato. Sa che la partenza implica il ritorno a casa, alla propria alterità immutabile, ai propri codici. Dunque sa che anche di questa esperienza che lo spinge nel disordine del mondo, il vero senso è riconfermare alla propria identità, ritrovarla fedele a se stessa pur nel procedere degli eventi. Un diario di appunti meticolosissimo, colto, intenso ed esilarante. Mari ci sorprende con le sue digressioni lessicali ricche, varie; con il dividersi tra ironia, eccentricità e discrezione, tra acume, disincanto e improvvise, insolite meravigliose suggestioni proprie di un animo che fa della nostalgia la forza che rende il passato mai concluso.

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R.m
Recensioni: 4/5

divertentissimo resoconto dell'esperienza di Michele Mari: ragazzo sensibilissimo e già coltissimo, riesce a rendere sarcastica e colorata anche un'esperienza tendenzialmente monocolore e piatta di accadimenti. Brillante come sempre!

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Voce della critica

Il titolo del "diario militare" di Michele Mari, Filologia dell'anfibio, uscito nel 1995 per Bompiani e riproposto ora da Laterza nella collana "Contromano", suona come inconsueto accoppiamento; cosa abbia a che fare la filologia con l'anfibio (nel senso di scarpone militare, non di creatura terracquea) non è immediatamente intuibile. Il lettore, guidato dalle parole di Mari, sorretto dalle intenzioni dichiarate dell'autore, capisce presto che il progetto è quello di applicare il rigore filologico a un'esperienza di vita, il servizio militare di leva, strana fra tutte le strane occasioni umane. Esperienza che allora, quando il libro è stato scritto, costituiva un rito di passaggio, importante ancorché appannato, come sono i riti di passaggio che sopravvivono in rebus corruptis lapsisque, per usare la stessa espressione che usa Mari. Dal 1° gennaio 2005, però, il servizio militare di leva è stato "sospeso". "Sospeso" e non "abolito", venne a chiarire sinistramente un ministro della Difesa: un estote parati per tutti i giovani che si avviano tranquilli verso la maggiore età, convinti di aver evitato celle di rigore, defatiganti esercitazioni e gavettoni insidiosi. In ogni caso adesso nessuno fa più il servizio militare di leva. Di conseguenza, quello che ci racconta Mari, presentando con analitica e coltissima precisione un istituto ormai tramontato, si è caricato, per la forza ineluttabile dei fatti, di un valore filologico aggiuntivo.
Se il titolo informa sul metodo, il paragrafetto introduttivo, intitolato Giustificazione, dà un importante chiarimento sul contenuto. Mari si colloca tra coloro che considerano il passato la sola dimensione reale e sanno che spesso la letteratura non è in grado di salvare la pienezza cangiante del divenire; non possono, quindi, che aggrapparsi "a quei lembi di passato che la vita abbia già generosamente delimitato per loro". E il servizio militare è proprio un frammento di vita chiuso in una forma compiuta, definito da rituali tanto categorici quanto lontani dal senso comune, dominato da tempi e cerimoniali propri e avulsi dalla quotidianità. Audacemente, lo scrittore affida alla sua scrittura elegante il tema insidioso, tema che ha prodotto una massa spropositata di parole dette, poiché non esiste individuo di sesso maschile che abbia "fatto il militare" senza poi ricavarne episodi plurimi (buffi, grotteschi, drammatici) da ammannire proditoriamente ad amici e fidanzate. Mari, da outsiderqual è, ci racconta minuziosamente l'inizio del suo anno di leva (i due mesi passati al Car), senza saltare neppure uno dei topoi che lo caratterizzano ("cubo", "puntura", "giuramento"), riuscendo a evitare la noia e il luogo comune. È la letteratura che compie il prodigio; la lingua di Mari è fatta di un lessico e di una sintassi arricchiti da armonici preziosi, che sono le voci degli autori a lui cari. Si leggono le prime pagine ed ecco l'uso del verbo "invidiare" (nel senso di "negarsi") ricalcato sui Sepolcri di Foscolo, e poi camerette vagheggiate, di petrarchesca memoria, e poi il divertito rimaneggiamento del capitolo iniziale del Principe e neologismi che sanno di Gadda e ancora tante altre risonanze che rendono lo stile di Mari simile a quelle porcellane smaltate in cui il colore, per la perizia dell'artefice, ha una sorta di liquida profondità.
Anche in Filologia dell'anfibio l'autore rivela, dote rara di questi tempi, la capacità di parlare di se stesso senza scadere nella viscosità dell'esperienza vissuta, senza scivolare mai in un appiccicoso e ininteressante autobiografismo. Fra tutti, questo è il segno più certo della qualità della sua scrittura. Si trovano, in questo libello, presagi e preludi dei temi prediletti da Mari, abbozzi che costituiscono disegni rifiniti in altre opere. Così il bellissimo pallone da calcio che approda nel desolato cortile della caserma e desta la concupiscenza del soldato Michele, che tenta invano di impadronirsene, richiama il racconto I palloni del signor Kurtz; il turno di guardia notturno alla "Riservetta" ipogea (Riserva locale di munizioni) rimanda al gusto per tutto ciò che è sotterraneo, sia essa la labirintica e surreale Parigi di Tutto il ferro della Torre Eiffel o la cantina domestica e insieme misteriosissima di Verderame; la descrizione puntigliosa di sordidi lavatoi e del cibo della mensa è generata dalla sfida che attraversa tutta l'opera di Mari e che punta a sottrarre la vita vera al disordine che la governa, per inserirla nel cosmo ordinato della letteratura. Ma – altro punto di forza di Mari – il rovesciamento è sempre in agguato. La letteratura non è onnipotente; ci offre soltanto un fondale più basso in cui è possibile gettare l'ancora, consapevoli – sempre – che il nostro personale bateau ivre è circondato da abissi vertiginosi e che per la nostra umana fragilità già scendere nella stiva può voler dire essere risucchiati dal gouffre.
Giovanna Lo Presti

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Conosci l'autore

Michele Mari

1955, Milano

Michele Mari è scrittore, traduttore, poeta, filologo, docente di letteratura italiana all’Università Statale di Milano. Ai suoi lavori - negli anni molto apprezzati e premiati da pubblico e critica - sono stati assegnati diversi premi letterari, sia in ambito narrativo che per la produzione poetica. Tra i suoi titoli, Di bestia in bestia (Longanesi 1989), Io venía pien d'angoscia a rimirarti (Longanesi 1990; Marsilio 1998), La stiva e l'abisso (Bompiani 1992; Einaudi 2002), Euridice aveva un cane (Bompiani 1993; Einaudi 2004), Filologia dell'anfibio (Bompiani 1995; Laterza 2009), Tu, sanguinosa infanzia (Mondadori 1997; Einaudi 2009), Rondini sul filo (Mondadori 1999), I sepolcri illustrati (Portofranco 2000), Tutto il ferro...

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