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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2007
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Un notevole passo indietro rispetto a "Tu che mi ascolti",lì i contenuti e il lirismo andavano di pari passo, qui non si capisce niente da subito ed in più l'autore vuole dare lezione di scrittura e di ermetismo. Cari scrittori puntate sulla sostanza(sopratutto lei Bevilacqua che è già affermato!) poi lo stile se viene viene...
Romanzo bellisssimo, ingarbugliato al punto giusto: "Il Gengis" potrebbe essere ognuno di noi, chiunque, ma proprio chiunque...forse Satana, Prodi., Berlusconi o persino lo stesso Bevilacqua ( qui in grandissima vena artistico-poetica-narrativa). Il libro è un miscelato mix di ironia, armonia, rabbia e sconcerto. Non si sa bene verso chi o cosa, ma questo non è., poi, molto importante. Insomma, uno dei più belli libri che ho mai letto. Un unico importante difetto: troppo corto. Su Bevilacqua come al solito ci si può mettere la mano sul fuoco.
Recensioni
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“Il ragno era la risposta alla domanda: quale animale poteva dirsi simbolo dei due Gensis, quello storico, perso nel tempo, che non si toglieva mai il cimiero alato con il diavolesco pennacchio nero, e l’altro, contemporaneo, che avrebbe pagato una cifra per poterselo mettere almeno una volta, quel cimiero, non per gloria guerresca, o forse anche per quella, ma per nascondere, agli occhi dei maligni, la mancanza di una folta, turbinosa capigliatura mongola?”
La volontà di potere di Gengis Khan non si fermò di fronte a nulla, neppure i propri familiari furono risparmiati. L’impero più vasto che mai fosse stato visto sulla faccia della terra doveva essere suo. Ma la sua vocazione in origine non doveva essere quella, così come è accaduto per molti protagonisti del Novecento e di questo spiraglio di XXI secolo con ambizioni in qualche modo paragonabili. Arrivò al suo immenso e terribile potere grazie alla propria volontà e all’assoluta mancanza di scrupoli morali, oltre che (ma in qualche modo secondariamente) per nascita.
E proprio un Gengis privo di etica e di remore è il protagonista di questo romanzo decisamente allusorio di Bevilacqua. Un Gensis che si è fatto da sé, che sa rivendere la propria immagine, che condiziona chi gli sta accanto, che ha una folle e sete di potere, dotato di un’ironia perfida e di una grande capacità di manipolare la realtà a suo favore.
In più interviste Bevilacqua ha dichiarato di non essersi ispirato a nessun politico in particolare, tanto meno a qualche protagonista dell’attualità. L’idea iniziale, lo spunto per questo romanzo è nato negli anni Settanta e si è evoluto nel tempo. Che poi la descrizione del suo protagonista si adatti all’attualità sembra più essere un fatto di preveggenza politica e culturale che di analisi a posteriori.
La storia si apre con una situazione sentimentale dai toni drammatici che vede coinvolti il Gengis nelle vesti di potente e feroce seduttore, Tommaso, un disegnatore e vignettista satirico di successo, intellettuale introverso e umorale e una donna, la sua ormai ex compagna, volubile e bellissima: Pupe. Pupe, un nome che non sembra affatto casuale: un omaggio evidente dello scrittore a un grande amore, quello per Romy Schneider (come dimenticarla ne La Califfa?), che con questo nome era stata splendida protagonista di Il lavoro, episodio di Boccaccio ‘70 firmato da Luchino Visconti. Pupe che si sfila le scarpe e le fa volare con due colpi, come Romy aveva fatto in quel film, Pupe, superficiale e viziata, che si disinteressa di politica, per poi avvicinarvisi con lo stesso sciocco atteggiamento che la giovane donna de Il lavoro, leggera e meravigliosa nei suoi abiti Chanel, aveva nei confronti del lavoro e del danaro.
Ecco dunque l’essenza della storia come Bevilacqua stesso ci racconta nella Postfazione: “il potente e il bastonato”. Tommaso è un uomo sincero, che amava veramente Pupe e il figlio di lei, Duccio. E il Gengis cerca in ogni modo di annientare non solo questi affetti, portandogli via entrambi, ma anche le sue relazioni lavorative e personali, arrivando a minacciarlo direttamente alla maniera del suo omonimo antico: la sua testa decapitata sarà mostrata in cima a un palo. È solo un collage fotografico, ma il senso è chiaro. Così come è chiara la contromossa di Tommaso, un vignettista in grado di disegnare il Gengis come un cane famelico che azzanna un mappamondo: “fauci spalancate, testa deformata nelle fattezze del crudele guerriero mongolo, sotto il cimiero alato con il diavolesco pennacchio nero. La scritta spiega: ‘La dieta vegetariana del Gengis Càn’!”. Dal successo di questa rappresentazione parte la rinascita personale di Tommaso che il lettore aspetta, desidera, vuole, perché non può, non deve averla vinta un uomo che “si ha il sospetto che creda in Dio perché si sente Dio”.
Da non perdere, infine, la Postfazione cui abbiamo già accennato: un ricordo affettuoso e intenso di Benito Jacovitti, che lo istigò a proseguire nella scrittura di quello che era solo un abbozzo in poche paginette e che è, come tutti avranno notato, l’autore dell’immagine di copertina.
A cura di Wuz.it
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