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Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
Max Aub rientra nel novero degli scrittori nella cui opera il concetto di sradicamento assume un ruolo precipuo e necessario. Figlio di padre tedesco e di madre francese, Aub nacque in Francia nel 1903 ma si trasferì allo scoppio della Prima Guerra Mondiale in Spagna. Fu però costretto all’esilio nel 1939, perché oppositore fiero e sincero del regime franchista. In quell’anno Aub superò i confini spagnoli, ignaro però che da quel momento sarebbe iniziato il suo esilio, poiché rifiutò sempre di stabilirsi in una Spagna ancora sottomessa a Franco. Prima di raggiungere il Messico, dove trascorrerà il resto della sua vita (morirà nel 1972), Aub provò sulla sua pelle, comunque, la violenza della detenzione: a causa del suo attivismo antifascista, l’ambasciata spagnola in Francia, controllata com’era dal regime franchista, lo fece ricercare come «comunista e rivoluzionario d’azione»: dopo l’arresto Aub viene detenuto prima nello stadio di Roland Garros, poi trasferito nel campo di concentramento di Le Vernet d’Ariège e, dopo un breve periodo di libertà, a Nizza, da dove tornerà all’incubo di Le Vernet. Sarà trasferito infine in un campo di concentramento in Algeria, a Djelfa, da dove però riuscirà a uscire e imbarcarsi per il Messico. Proprio in Messico la rielaborazione dell’esperienza traumatica della fuga diventerà un punto cruciale all’interno della sua opera.
Aub, narratore lucidissimo della violenza del regime franchista nonché voce della diaspora spagnola, una volta acquisita la cittadinanza messicana inizierà a chiedersi chi veramente sia: «Cosa sono? Tedesco, francese, spagnolo, messicano? Cosa sono? Niente. Di chi la colpa? Come incolparmi? Eppure, latente, quella fitta, quel verdetto: colpevole. Ho voluto essere uno scrittore. Cosa sono? Romanziere, drammaturgo, poeta, critico? Non sono niente; anche lì, con più ragione, la sentenza: colpevole. […] Di cosa ti lamenti? “Uno è sempre a metà”». È da interrogazioni simili a questa che muovono i racconti di Gennaio senza nome, la prima antologia di racconti di Aub pubblicata in Italia, con la cura di Eugenio Maggi per la casa editrice Nutrimenti. Sono testi che tentano di ricostruire una memoria collettiva, annientata da Franco e dal suo regime nonché dal silenzio delle altre democrazie occidentali; un tentativo però sommerso dall’amarezza, nata dalla consapevolezza che tutto poteva essere differente, e dal dolore esistenziale della lontananza e dell’esilio.
In questi racconti si sentono le voci che parlano della Spagna, della rivoluzione, della politica e della sconfitta, immerse in un processo cognitivo continuamente in movimento, mai domo e rassegnato, simbolo della tensione intellettuale di Aub che necessita di scrivere, di fissare sulla pagina ciò che altrimenti, volatile e fluido, andrebbe perduto. Nel racconto più lungo, il meraviglioso Il lustrascarpe del Padreterno , ci si trova davanti all’ineluttabilità della guerra e del suo vortice che nessuno risparmia. Il protagonista, Malaga, è un doppio dell’autore, come lui catturato in Francia e poi spedito a Djelfa: diverso da quello di Aub è però lo sguardo ingenuo e allucinato rivolto da Malaga a quello che gli va capitando: il suo è peraltro, allo stesso tempo, un punto di vista privilegiato sulla vita del campo, sui ruoli gerarchici tra prigionieri e guardie e sulla durezza di una detenzione che portava sempre più ad assottigliarsi non solo il suo fisico («Era un filo e sorrideva, il suo corpo ormai reggeva solo il sorriso. Orrendo tanto era magro, con gli occhi aperti, brillanti e sporgenti»), ma anche il suo pensiero – che sempre più si avvicina, a causa delle mostruosità e delle violenze, a quello di un bambino, svuotato di tutto.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, sicuramente tra i più originali e toccanti, il punto di vista è invece quello di un vecchio grande albero, che svolge il ruolo di narratore («sono nata in piedi. Sono sempre stata alta, più grande di quanto non si addica alla mia età; sono nata intorno al milleottocentottanta e qualcosa, e poco a poco sono andata allargando, come si deve, il mio tronco e il mio paesaggio»). Lo stratagemma del narratore permette ad Aub di confrontare con grande naturalezza i tempi della natura, delle potature e dei processi naturali, con quello degli uomini, del loro sviluppo tecnologico e ambientale, nella fiera opposizione tra stabilità e movimento: «forse gli uomini sono disgraziati perché si muovono tanto, ma è più quello che si porta via il vento». L’albero assiste al movimento forzato della diaspora del popolo spagnolo verso la Francia, notando come tutti quegli esseri umani, uomini, donne, bambini e anziani, si muovano senza uno scopo futuro, solamente spinti dalla fuga, annotando i dolori del popolo in cammino: «Ieri notte è morto un bambino ai miei piedi; non era che un virgulto, e la madre se l’è portato via, in viaggio verso la Francia, credendo che lì risusciterà; non credo ai miracoli. E non capisco neppure perché muoiano i bambini: la morte è una cosa da rimanerci secchi». E ancora, poco dopo, sempre sulla morte, che è lo spirito che sembra guidare la marcia: «Si muore anche di marciume, quando si hanno le viscere rose dai vermi. Gli uomini muoiono tarlati dall’esterno. Da quello che ho sentito ieri notte, anche di fame».
In tutti i racconti si sente un alone di morte, mosso dal triste presagio che tutto ormai sia perso: la scrittura di Aub, tanto elegante e fine quanto diretta al cuore delle cose, non ha spazio né tempo per la nostalgia o la speranza di un futuro che possa rimettere a posto i tasselli di vite ormai spaiate e decostruite. È una scrittura che nasce da un forte seme autobiografico e si fa letteratura testimoniale, come nota Maggi, dove qualsiasi passato o futuro mostra sempre i traumi di una «mattanza collettiva», dello sradicamento e della fatica del ricordo: «“Dove vanno tutti questi qui?” “Che vuoi, la resistenza ha dei limiti”. “E una frontiera”. “Scherza, scherza. La morte è una faccenda di ciascuno. Sopportare è di tutti. Se qualcuno cede, va a monte tutto. Questa gente non sa cosa vuole, ma sa benissimo cosa non vuole. Per quello scappano. Non è che hanno paura, non vogliono essere fascisti. Capisci? È chiaro come il sole: non vogliono essere fascisti».
Matteo Moca
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