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Genova è un osservatorio che osserva se stesso. Questa città è un melting pot settentrionale-mediterraneo-sudamericano, con emergenze sociali forti: emergenze che non vengono risolte o descritte né dalla raffinatezza ‘nera’ e ilica di Enrica Salvaneschi né dai «giuochi» e dalle rappresentazioni corporali-sessuali di Edoardo Sanguineti e della parte ligure del fu Gruppo 93; né, si parva licet, dai miei tentativi di ‘dosare’ e ‘mediare’ (e meditare) un vuoto da riempire urgentemente di Altro, che non è umano. Ogni ricerca spinta – materialismo, spiritualismo, estetismo, trobar clus o leu spinti all’eccesso – è sempre praticabile; ma di per sé è lettera morta, rispetto agli interventi sulla realtà: è glossolalia e non profezia. Non è obbligatorio parlare in modo esplicito dell’Emergenza, soprattutto in un momento in cui qualunque detto meditato è, di per sé, una cosa che ‘resiste’, per il solo fatto di non voler essere un discorso imperiale; ma ciò che non è tematizzato – in questo caso gli altri e le altre, il neo-Terzo Stato – dovrebbe essere, almeno, avvicinato corporalmente, nei singoli che lo compongono, se si aspira ad una politicità operativa, capace di modificare lo status originale, se è negativo. Oggi dobbiamo confessare che non siamo (stati) noi (autori e autrici di poesie) a modificare in meglio qualcosa del contesto in cui viviamo. Chi vuole interagire con la realtà sporca deve volerlo, in primo luogo, nel chiuso della mente, con la stessa necessità che spinge a mangiare, respirare, dormire. Non è necessario che i testi in sé tematizzino lo sporco. Gli scrittori di Genova sono consapevoli di vivere chiusi, nella città-aperta che si chiama Porta (Ianua). I luoghi (Pegli 2 o Albaro) sono celle e capsule; continuando la metafora: più giustamente, sono cofani, non eludibili, che eludono sia la lotta spirituale sia la contemplazione, sia Lia sia Rachele.
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