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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2016
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Danger Mouse si sistema in cabina di regia e prova a condurre i Red Hot verso un album tranquillo. Ma non si limita a dirigere la situazione, appare nei credits di mezzo disco, una cosa rara per un produttore con i peperoncini. Il risultato è un disco tra luci e ombre, non molto spontaneo ma comunque con qualche highlights che si riascoltano.
Recensioni
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Come succede con i difensori di football americano, non è semplice invecchiare con dignità se sei un Red Hot Chili Pepper; letteralmente o metaforicamente, mettersi i calzettoni di spugna sul pistolino non è la scelta migliore da fare a 50 anni. Bisogna riconoscere però che l’undicesimo album dei Peppers è un robusto tentativo di far coincidere il loro passato da party animal con il loro presente, pieno di ambizioni artistiche: non sempre un’accoppiata perfetta, ma spesso molto efficace.
Con la produzione affidata a Danger Mouse e con il sesto uomo dei Radiohead, Nigel Godrich, al mix, il suono è il massimo disponibile in ambito modern-rock: brillanti passaggi di chitarra, pungenti arrangiamenti di violini e un’esplosione di ritmiche fatte in casa. Il basso di Flea è ancora la base della musica, nodoso come i muscoli di Iggy Pop, con la romantica poesia di Anthony Kiedis che si fa strada in mezzo ai suoni, raccontando Los Angeles.
Ci sono momenti sorprendenti (il mash-up tra Chic e Daft Punk su Go Robot, il saluto a J Dilla in Detroit) e ci sono momenti famigliari (l’intricato rap rock di We Turn Red). A livello di testi, l’atmosfera è spesso malinconica. Sulla nostalgica Encore, Kiedis invoca i Beatles, mentre il fun psichedelico di Dreams of a Samurai lo dipinge nudo nella cucina di una donna “troppo giovane per essere mia moglia” e poco dopo “prendendo acidi al cimitero”.
Tutti questi spaccati di mortalità alla fine suonano bene.
Recensione di Will Hermes
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