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Il movimento neo borbonico favoleggia di un meridione che prima dell’Unità era prospero, definisce il brigantaggio dopo la sua annessione all’Italia come un forte movimento di resistenza all’oppressore sabaudo che impoverì quelle terre depredandole di continuo. Carmine Pinto con questo suo interessante saggio ha voluto vederci chiaro, ricorrendo, argomento per argomento, a un’ampia documentazione storica e archivistica, con cui sono contestate le teorie dei neo borbonici. Se l’avanzata di Garibaldi, dopo il suo sbarco in Sicilia, proseguì trionfalmente con la partecipazione di migliaia di meridionali e se poi avvenne, dopo Teano con l’incontro dell’Eroe dei due mondi con Vittorio Emanuele II, l’annessione di quello che era il Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d’Italia, è indubitabile che in seguito ci fu un tentativo di restaurazione, promosso dall’ex re Francesco II e dallo Stato della Chiesa, tentativo che anziché essere affidato a un esercito regolare si estrinsecò in azioni di guerriglia al cui avvio diedero impulso i briganti già esistenti, ai quali poi se ne aggregarono altri. Pinto sfata subito il mito del brigantaggio meridionale come emblema della libertà e della ribellione contro gli invasori piemontesi; lì non c’erano certamente dei Robin Hood o dei Che Guevara, lì c’erano fior di mascalzoni che si videro legittimati a rubare, devastare e opporsi all’esercito regolare piemontese, nonché alla Guardia Nazionale, composta esclusivamente da elementi locali. Non esisteva un piano articolato, semplicemente si voleva rendere difficile e pericoloso il governo dello stato italiano, creare uno stato di tensione e confusione tale da provocare un’insurrezione popolare, che però non accadde. Per concludere, smontando tante teorie strampalate uscite dalla fantasia dei neo borbonici, secondo Pinto la guerra dei briganti è stata caratterizzata dalla quasi completa assenza di distinzione tra scopi criminali, scopi privati e motivazioni politiche.
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