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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2017
Che uno dei massimi italianisti scriva un libro di impianto tematico e decisamente comparatistico conferma che la letteratura moderna (ma non solo) vive in un contesto sovranazionale; e che ha un senso studiarla solo se abbiamo l'ambizione di chiederle conto del nostro "destino": questa, relegata nel sottotitolo, la parola-chiave dell'intero volume. Bisogna scegliere bene il tema, naturalmente: non "il cavallo in letteratura", con ottime ragioni irriso da Spitzer, Croce e altri, ma eventi carichi di significato antropologico e per loro natura provvisti di un'evidente ricaduta formale. Dall'Odissea al racconto picaresco, dai canzonieri medievali a Cervantes, da Ariosto al romanzo di formazione e oltre, la letteratura occidentale è tramata di incontri: al tempo stesso svolta nel destino dei personaggi e tecnica privilegiata nella costruzione del racconto.
Con taglio ampiamente motivato e probabilmente inevitabile, ma forse troppo netto, Romano Luperini isola un segmento cronologico di circa un secolo, dai Promessi sposi al modernismo (Proust, Svevo, Musil, Pirandello, Joyce, Kafka), e si concentra su una ventina di capolavori (romanzi e novelle), in cui l'incontro non è semplicemente un tema fra i tanti, repertoriato in singole porzioni del testo, ma può diventare il tema, filo conduttore di una lettura capace di proiettare nuovo senso sull'opera intera. L'incontro e il caso non vuole offrire, dunque, un (impossibile) catalogo esaustivo di incontri narrativi, ma interrogare per campioni implicito modello l'Auerbach di Mimesis la letteratura europea fra Otto e Novecento. Non conta la completezza, ma il valore rappresentativo degli esempi scelti, perché la scommessa è di coniugare ricerca tematica e interpretazione globale dei testi: nel segno di quell'"ermeneutica materialistica", in sospetto di fecondo ossimoro, che Luperini teorizzava in un precedente libro laterziano, Il dialogo e il conflitto, del 1999.
Nel primo Ottocento, in Manzoni come in Goethe o in Balzac, gli incontri sono "essenziali", provocano una trasformazione nel carattere e nel destino dei personaggi, segnano lo sviluppo della trama. Non c'è conflitto più squilibrato e forse perfino improbabile di quello, notturno, fra un masnadiere e una contadinotta: eppure, se la conversione dell'Innominato matura nel dialogo con Lucia, non è solo per provvidenziale, e didascalica, promozione degli umili. Come mostra Luperini, quello snodo decisivo dei Promessi sposi dà corpo a un'ideologia del potere, della storia, della femminilità, e imprime una direzione nuova alla vicenda dei personaggi. Sono invece "inessenziali" gli incontri di cui pure è costellata L'educazione sentimentale di Flaubert, il capolavoro che per tanti versi inaugura (o almeno anticipa) la crisi modernista: rallentando un'azione narrativa ridotta a scialo esistenziale e monotona ripetizione, svuotando la vita interiore di personaggi ormai "senza qualità", parodiando cinicamente, e insieme disperatamente rimpiangendo, il mito romantico dell'amore travolgente e quello borghese del successo economico-mondano. E se un'analoga nostalgia di autenticità sopravvive in molte novelle di Maupassant, dove l'ineluttabile compiersi di un destino mediocre e l'impietosa ironia del narratore non escludono un'impotente protesta, affidata a lampi di dignità, o a brevi attimi di felicità erotica, sempre più spesso nella letteratura del Novecento l'incontro è presentato come frustrante, o illusorio, o addirittura impossibile.
Si assiste, secondo Luperini, a un progressivo scollamento di pubblico e privato, a uno svuotamento di senso dell'esperienza, a una vittoria del caso su ogni conato di umana progettualità. Nel buio di un'esistenza vuota, si accendono, incerte e intermittenti, poche scintille epifaniche, "combinazioni provvisorie, che il tempo subito dissipa": come l'incontro, su una spiaggia di Dublino, fra Ulisse-Bloom e Nausicaa-Gerty, "un grande incontro d'amore, sia pure stravolto e grottesco"; dove l'onanismo altro non è che "l'esito estremo e coerente" della condizione di "isolamento" che segna la moderna antropologia urbana.
Due, dunque, le svolte storiche: quella fondamentale (e troppo spesso ignorata dai manuali) di metà Ottocento, fra il '48 delle rivoluzioni fallite e il '57 dei processi a Flaubert e Baudelaire; e quella d'inizio Novecento, quando prende definitivamente corpo una "nuova antropologia", del personaggio e dell'individuo occidentale. Ricerca tematica e interrogazione ermeneutica non escludono un'impostazione storicista: e anzi L'incontro e il caso è anche un libro a tesi sulla genealogia del modernismo. O, almeno, di un certo modernismo: (mittel)europeo, (alto)borghese, votato all'esplorazione di uno scacco esistenziale. Naturalmente, la scelta degli esempi non è estranea all'impressione di linearità storica quasi una teleologia negativa che il saggio può suscitare: Pirandello, o Kafka, raccontano l'esito più radicale di quella privatizzazione dell'esistenza (fine dell'esperienza, insensatezza della storia) di cui per primo faceva le spese Frédéric Moreau; e invece una dimensione avventurosa dell'incontro, con risvolti epici, o tragici, o in certi casi perfino romantici, persiste, ben oltre la svolta flaubertiana, nella letteratura americana come in quella russa; o in scrittori per certi versi atipici, ma grandissimi, come Conrad, o Céline, o anche Thomas Mann.
È vero che le esclusioni sono quasi sempre giustificate da buone ragioni linguistiche e/o di omogeneità culturale; è vero che Luperini, in apertura e in chiusura, suggerisce un modello storiografico "a spirale", che sappia dar conto di corsi e ricorsi irriducibili a rigida linearità: e infatti, per esempio, ricorda come in tempo di lotta partigiana, la letteratura (Fenoglio, e non solo) restituisca all'incontro pienezza di significato esistenziale. Resta però l'impressione che il quadro sia in certa misura parziale; come, del resto, le (troppo) note intuizioni di Benjamin sulla fine dell'esperienza nella modernità urbana e tecnologica. Il sospetto è che l'autenticità di un'esperienza personale e sociale, così come la pienezza epica contrapposta dalle estetiche idealiste alla prosa romanzesca e borghese, non si siano (quasi) mai date (se non in utopia) nella storia della letteratura; tanto meno in quella degli esseri umani. E che gli sconvolgimenti della modernità siano al tempo stesso certo in misura variabile, ma inscindibilmente: è perfino banale dirlo acquisto e perdita: senza nulla perdonare all'orrore dell'alienazione capitalista. Perché la preponderanza del privato sul pubblico, così marcata, dopo Flaubert, nella rappresentazione letteraria dell'incontro, è stata anche, da Rousseau in poi, scoperta esaltante (e perturbante, va da sé) della soggettività e dell'interiorità; da Balzac in poi (ma forse già nel Settecento), redenzione creaturale del quotidiano; dal naturalismo in poi, riscatto delle ragioni del corpo. In una labirintica partita doppia di cui sarebbe probabilmente ozioso, oltre che impossibile, certificare il saldo.
Del resto, c'è anche un'iperbolica ambivalenza del negativo, che non esclude una paradossale ilarità: esemplarmente, in molte pagine di Kafka. E perfino l'arbitrarietà del caso, tanto spesso motore dell'incontro nei capolavori modernisti, può rovesciarsi in conquista di significato, se non proprio in vincolo causale. Non solo perché il caso, sia pure in altre forme, dominava già nell'universo picaresco, la cui miserabile marginalità non escludeva un'euforia avventurosa; non solo perché le capricciose combinazioni del destino raccontate dai grandi romanzi del primo Novecento non raggiungono quasi mai quei vertici di entropica insensatezza che caratterizzeranno, qualche decennio più tardi, le scritture dell'assurdo, dagli esistenzialisti a Beckett, o un ostico capolavoro del postmodernismo come L'arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Ma soprattutto perché la casualità del destino, nei narratori contemporanei di Freud, può essere in qualche modo guidata, o perfino predeterminata, da necessità inconscia: quella, per esempio, che nel Compimento dell'amore spinge Claudine fra le braccia di un insulso consigliere ministeriale, incrociato fortuitamente in treno e da ogni punto di vista inferiore all'impeccabile marito. A questo racconto di Musil, splendido, inquietante ed enigmatico (ma non disperato), Luperini dedica una delle analisi più appassionanti e problematiche. Ma ogni capitolo del libro avanza proposte d'interpretazione originali e anche ardite: sempre argomentate con magistrale lucidità. Così Swann, nella Recherche, diventa l'immagine veritiera e negata del narratore, piuttosto che il suo doppio dilettantesco e degradato.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma un riassunto non potrebbe rendere giustizia alla ricchezza di un libro davvero importante, il cui titolo ha anche un'implicita intenzione allegorica: quella di rilanciare, in epoca di crisi, il valore irrinunciabile dell'incontro critico con il testo e con il mondo. Quali che siano la forza e i limiti, anche ideologici, di una radicale e coerente antropologia della perdita: che rivendica con passione la sua parzialità; proietta nel passato l'utopia di un'esperienza autentica e piena, capace di tradursi, sul piano sociale, in incontro con l'altro; e, soprattutto, chiede ai capolavori della letteratura europea con felice ostinazione, degna del modello sommo di Giacomo Debenedetti di parlarci di ciò che è davvero importante: del nostro destino.
Pierluigi Pellini
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