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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2011
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«Io non chiederei di meglio che farmi, come si dice, i fatti miei, ma "lui" interviene. Continuamente. Mette il naso, praticamente, in tutto quello che faccio.»
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Confesso di aver provato un certo imbarazzo leggendo qualche recensione qua sotto. Gente scandalizzata dal fatto che una buona fetta di queste 400 e passa pagine sono in sostanza un dialogo tra l'uomo e il suo membro virile: d'accordo, magari non è di buonissimo gusto, ma lo sapevate che stavate comprando un libro dal titolo "Io e lui"? Tutto veramente molto divertente (come divertenti sono quelli che si lamentano del troppo alto numero di forme dialettali vicentine in Meneghello: ma seriamente, ragazzi?). Bando alle ciance, il modo più chiaro per riassumere il romanzo rimane, a mio parere, la nota osservazione di Segre: "Il sesso, sempre dilagante in Moravia, diventa unico protagonista nell'ossessivo e razionalistico Io e lui (1971). E l'intelligenza è il tratto caratterizzante Moravia; anche a scapito dell'arte". Osservazione sottoscrivibile non in tutto e per tutto - quell'"a scapito dell'arte" non mi convince e mi ferisce - ma senz'altro utile per inquadrare il testo.
Può un grande autore come Moravia scrivere un romanzo di serie B? Sì, e Io e lui ne è la prova. Se l’idea iniziale è quantomeno interessante (ripresa da Malerba due anni dopo nel suo Il protagonista, ma resa più godibile e divertente) tutto il resto lascia a desiderare: protagonista, narrazione, scrittura, tutto sa di artificiale e artificioso, oltre che di vecchio e arcaico (cosa che non accade ne La noia o ne Gli indifferenti, capolavori dell’autore). Di Moravia si dovrebbe leggere ben altro. Un’occasione di certo sprecata.
Sicuramente non è un capolavoro della letteratura sia per certe lungaggini sparse qua e là, sia per il tono non sempre costante della scrittura. Con tutto ciò ritengo che sia un libro che valga la pena di leggere, non solo per alcune pagine scritte con un brio davvero magistrale, ma anche per le domande importanti che l’autore pone: rinnegare se stessi (nella fattispecie la sessualità prorompente), o accettare la normalità? imitare i “rivoluzionari” (i “rivoluzionari” quali Moravia, attraverso alcuni episodi, li descrive), o accettare la propria banalità? A me viene spontaneo il paragone con “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo: chi lo ha letto ricorda certo il problema dell’ultima sigaretta e a quale decisione arrivi il protagonista Zeno Cosini al termine del romanzo.
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