"Regista francese. Figlio del grande pittore Pierre-Auguste, cresciuto a Montmartre in un ambiente di artisti e poeti tra i più cruciali per l'arte del Novecento, compie gli studi in un collegio e a vent'anni, allo scoppio della prima guerra mondiale, è arruolato come allievo ufficiale e mandato al fronte, dove viene ferito a una gamba. Dopo la fine del conflitto apre una fabbrica di ceramiche e sposa C. Hessling, una delle modelle del padre, che in seguito apparirà in alcuni dei suoi film. Grande appassionato del cinema americano (che in quel periodo ferveva di innovazione), viene colpito dalle ricerche dell'avanguardia, in particolare da un film del 1923, Le brasier ardent di I. Mozz?uchin, che gli appare come un'autentica svolta nel cinema francese, per lo più stancamente adagiato nei modi della pochade. L'anno successivo si mette per la prima volta dietro la mdp per girare La fille de l'eau (La ragazza dell'acqua, 1925), un «due rulli» palesemente influenzato dalla grande arte pittorica del padre, dove tuttavia è già evidente lo sforzo di una ricerca tutta interna al linguaggio delle immagini in movimento. In realtà R. non ha legami diretti né con i padri precursori, né con gli esponenti dell'avanguardia vera propria; in poche parole né con Gance, Epstein, L'Herbier, Delluc, né con Clair, Buñuel, Man Ray ecc. Mostra al contrario di voler percorrere una strada indipendente, di voler perseguire un'idea di cinema del tutto personale. Vincerà la scommessa, come è noto, diventando non solo «il più francese dei registi francesi», per dirla con G. Sadoul, ma una delle figure centrali della storia del cinema. Si volge prima verso il realismo, girando Nana (1926), tratto liberamente da Zola, e poi verso il mondo delicato della fiaba, con La petite marchande d'allumettes (La piccola fiammiferaia, 1928). Il suo primo film sonoro, On purge bébé (La purga al pupo, 1931), tratto da Feydeau, è una farsa che fa clamore per il semplice suono di uno sciacquone da gabinetto registrato in diretta, cosa che a quei tempi doveva apparire straordinaria, e che gli procura una totale autonomia nella direzione di La chienne (La cagna, 1931), una sorta di noir che in realtà è una ficcante incursione nel lato meschino dei rapporti di coppia. L'anno successivo realizza un altro noir di altissimo rango, La nuit du carrefour (1932), tratto da G. Simenon, e subito dopo Boudu salvato dalle acque (1932), una delle sue opere più geniali e insieme più misconosciute, osteggiate e occultate, la cui riscoperta si deve a H. Langlois e alla Cinémathèque di Parigi. Salvato dalle acque della Senna da un libraio parigino, filantropo e benestante, Boudu gli si installa in casa malgrado l'aperta ostilità della consorte. Vagabondo incallito, anarchico, maldestro, stralunato, invadente e insofferente di qualsiasi regola, Boudu sconvolge in breve tempo la tranquilla vita borghese della famiglia: insidia la cameriera, si porta a letto la padrona di casa, semina il disordine con naturale disinvoltura e con sincero stupore di fronte alle rimostranze del suo ospite. Il quale, a sua volta, minaccia continuamente di cacciarlo, ma ne subisce il fascino un po' animalesco fino al punto di combinargli il matrimonio con la cameriera. Il giorno delle nozze, durante una gita in barca sulla Senna, Boudu, inveterato clochard vestito a festa, per un brusco movimento finisce in acqua, ma anziché affrettarsi a risalire si lascia trascinare dalla corrente lontano dalle grida di richiamo della novella sposa e, guadagnata la riva, riconquista la libertà degli spazi aperti. Alla sua uscita, Boudu è un clamoroso fiasco commerciale. Riapparso dopo decenni di «invisibilità», si presenta in realtà come uno dei capolavori di R., girato in piena libertà stilistica, denso di invenzioni, di humour sulfureo, di ironia, e sostenuto da un M. Simon di straordinaria bravura nel restituire la fascinosa dialettica di repulsione-attrazione dell'ineffabile clochard. Il film che segue, Madame Bovary (1934), risulta una sorta di parentesi anodina, mentre appare di ben altro vigore Toni (1934), ispirato a un fatto di cronaca, la torbida storia di una donna spagnola che uccide il marito e ne lascia incolpare il proprio amante, per poi confessare il delitto, dopo che quest'ultimo è stato impiccato. Secondo Sadoul (forse influenzato dalla presenza di L. Visconti come assistente), il film «apre la strada al neorealismo italiano». Nel frattempo in Francia si avvia la febbrile stagione del Fronte Popolare, alla quale R. direttamente si ispira per la realizzazione di Il delitto del signor Lange (1935), avvalendosi della fresca e brillante sceneggiatura di J. Prévert. Luogo centrale della vicenda è una casa popolare parigina abitata da un ceto proletario che costituisce un fronte solidale contro Batala, padrone di un'impresa tipografica, ladro e truffatore, fuggito abbandonando fabbrica e operai. Questi ultimi formano una cooperativa e rimettono in piedi l'impresa pubblicando i libri del signor Lange. Visto il buon andamento della sua ex tipografia, Batala si presenta a reclamare i diritti di proprietario, ma in un'animata discussione si scontra con Lange e rimane accidentalmente ucciso. Il film rimanda una visione della lotta di classe francamente naïf, tuttavia la grande mano registica di R. e la caustica e beffarda vena di Prévert ne compensano largamente la semplificazione ideologica. Nel 1936, per il Fronte Popolare il regista dirige poi il documentario La vie est à nous (1936) e, in seguito, Verso la vita (1936), tratto da L'albergo dei poveri di Gor'kij. Tra l'uno e l'altro di quest'utimi due film, realizza Una gita in campagna (1936), l'opera forse più raffinata di tutta la sua filmografia, rimasta notoriamente incompiuta. È R. stesso che ne fornisce le ragioni in un'intervista raccolta da J. Rivette e F. Truffaut: «Non avevo potuto fare il montaggio perché, dopo aver girato Verso la vita, sono stato coinvolto in La grande illusione, un progetto che dopo tre anni era diventato improvvisamente possibile. In seguito, uno dietro l'altro, senza respiro, ci sono stati La Marsigliese, L'angelo del male, La regola del gioco: film che mi erano tutti cari. E ogni volta dicevo: Dio mio, dopo farò il montaggio di Una gita in campagna». Il film esce per la prima volta nel 1946, in un lungo frammento di bellezza indescrivibile, che rappresenta un omaggio straordinario alla grande pittura impressionista. Tra vicende alterne, R. non lo porta mai a termine. Il materiale non montato – 110 scatole di immagini, bande sonore e frammenti vari – rimane chiuso nei magazzini degli studi Eclair fino al 1962, quando viene donato alla Cinémathèque di Parigi. Molti anni dopo viene reso pubblico in un montaggio che la Cinémathèque stessa presenta a Cannes nel 1994, in coda al frammento già noto. Si tratta di una serie di ciak, spesso ripetuti molte volte, in cui recita lo stesso R., che interpreta la parte del padrone dell'osteria di campagna. Ne risulta un'autentica lezione di regia, di direzione degli attori, di lavoro sulle inquadrature, che rappresenta un autentico documento storiografico e che assume, tra l'altro, anche una straordinaria valenza «didattica». Una gita in campagna appare ancor oggi un'opera percorsa da un erotismo sottile, delicato e al tempo stesso insinuante. Girata nel luglio del 1936, al tempo dei grandi scioperi e delle grandi lotte del Fronte Popolare, lontano da Parigi, in una campagna lussureggiante attraversata da limpide acque, rimanda un'atmosfera tutt'altro che bucolica, bensì impregnata da quel tocco di dissacrante ironia di cui il regista era capace, e che si dispiegherà pienamente in La regola del gioco. È il periodo più creativo di R. Nel 1937 gira La grande illusione, considerato uno dei vertici di tutto il suo cinema, avvalendosi della sceneggiatura di Charles Spaak. Si tratta della vicenda rigorosamente vera – appresa dal regista durante la sua esperienza nella prima guerra mondiale – di un gruppo di soldati francesi di varia estrazione sociale, prigionieri dei tedeschi, che preparano e proteggono la fuga, andata a buon fine, di due loro compagni. Il film viene accolto ovunque trionfalmente, anche per alcune sequenze divenute presto memorabili, ma viene proibito in Germania e in Italia per il suo antimilitarismo e per il suo pacifismo umanitario, che si allarga in uno slancio di fratellanza universale. Un'utopia che ancora una volta traduce in forme allegoriche (venate qua e là da un certo idealismo) le ragioni progressiste e le istanze sociali del Fronte Popolare. R. gira nel 1938 La Marsigliese e L'angelo del male, tratto da La bestia umana di Zola, un dramma interpretato da J. Gabin, che contiene una sequenza da antologia, realizzata in una stazione ferroviaria, densa di notazioni documentarie e al tempo stesso altamente lirica. È poi la volta di La regola del gioco (1939), probabilmente il suo maggior film, sicuramente il più graffiante e insieme il più caustico e brillante. R. esibisce un cinismo insolito, che demolisce la grande borghesia francese dell'epoca, non risparmiando i suoi servi, classe subalterna che assume tonalità grottesche quando si rispecchia nell'aura dei padroni. Un ricco castellano, un po' stagionato, vuole mollare l'amante e riprendersi la moglie. Costei è parecchio corteggiata e non disdegna le attenzioni degli ospiti del marito. Tutti si spostano per la caccia nel castello di Sologne, dove un intraprendente domestico seduce, ricambiato, la moglie del guardiacaccia, il quale, geloso e furente, uccide per sbaglio uno degli ospiti del padrone. La commedia si tramuta in dramma: il dramma «allegro» che R. voleva da tempo. Né il gioco geometrico delle parti, né l'abilità consumata degli attori, né la sofisticata regia riescono ad attenuare il sapore agro di questo spietato sberleffo antiborghese. È la vigilia della seconda guerra mondiale, e alla prima al Coliseum di Parigi il film viene fischiato e subito proibito dalla censura militare perché «décourageant». Decisamente, quegli allegri signori, dediti a frivoli intrighi amorosi cui non sono estranee le complicità dei domestici, non devono sembrare granché patriottici, né consapevoli della gravità del momento. Poco dopo R. parte per Roma, invitato a tenere un corso al Centro sperimentale, e in vista di dirigere Tosca, che però si interrompe dopo il primo ciak a causa dello scoppio della guerra. Si imbarca allora per gli Stati Uniti, ingaggiato dalla Fox. A contatto con Hollywood sembra però che la sua creatività cali di tono. Dirige La palude della morte (1941), Questa terra è mia (1943), Salute to France (1944), Il diario di una cameriera (1946), La donna sulla spiaggia (1947), tutti film non memorabili, a eccezione di L'uomo del Sud (1945), commosso affresco sulla condizione dei contadini poveri, che è forse il suo miglior film americano. Di gran lunga più intenso e affascinante Il fiume (1951), girato in India, storia di una famiglia inglese contrappuntata dai lenti ritmi della vita che scorre lungo un grande corso d'acqua, e che il regista coglie con sguardo intriso di lirismo. Nell'ultimo periodo della sua vita d'autore R. non riesce più a raggiungere le vette della sua arte passata. Dirige con abiltà consumata ma senza più la tensione di un tempo La carrozza d'oro (1953), una sorta di balletto (girato in Italia, protagonista A. Magnani) che gioca tra la farsa e il melodramma, e successivamente French Cancan (1955), Eliana e gli uomini (1956), Picnic alla francese (1959). Trova invece un nuovo grande guizzo con Il testamento del mostro (1961), stupefacente trascrizione di Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, il classico di R.L. Stevenson, dove, al contrario che nello spirito del libro e della tradizione cinematografica (la lotta tra il bene e il male), il contrasto viene beffardamente posto tra il perbenismo borghese del dottor Cordelier e la libera emancipazione della personalità, ancorché selvatica, del signor Opale. Gira ancora Il fiore e la violenza (1962), Le strane licenze del caporale Dupont (1962), Il piccolo teatro di Jean Renoir (1969). (el) "