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Machiavelli non è solo un classico del pensiero politico, ma è anche un archetipo della politica intesa come contesa spietata per il potere. Si tratta di un'immagine che comincia a fissarsi nel corso del XVI secolo per arrivare fino a oggi. Una prova della vitalità di questa leggenda nera machiavelliana la offre anche questo libro, che è diviso in due parti. La prima è dedicata alla presenza di Machiavelli nella riflessione e nella contesa politica europea degli anni trenta del novecento. La seconda è volta a rintracciare i richiami al segretario fiorentino nella discussione sul totalitarismo nel secondo dopoguerra. Negli anni trenta Machiavelli non è solo un riferimento dell'analisi storica e politologica, ma serve anche alla lotta politica. Come si può immaginare, è soprattutto il fascismo, nel tentativo di costruirsi una propria genealogia nazionale alta, a mettere nella galleria degli antenati Machiavelli. Più dubbio l'uso che ne tenta il nazismo. Ovvio, infine, che risulti meno presente nell'orizzonte intellettuale del totalitarismo comunista, che aveva già i suoi autorevoli mentori teorici. L'analisi però passa in rassegna anche la discussione che di Machiavelli fanno figure cardine della cultura soprattutto italiana (Pareto, Mosca, Croce, Gentile). Nel dopoguerra, invece, la discussione è interna al mondo scientifico e il confronto con Machiavelli serve a un'analisi che vuole mettere a fuoco strumenti conoscitivi. Tuttavia, se la distinzione tra i due momenti della ricezione novecentesca è netta, c'è un filo rosso che li unisce. In quasi tutti i casi ci troviamo di fronte a un Machiavelli amputato. Il Machiavelli preso in esame è quello della fondazione della stato, che necessita del calcolo spregiudicato, non quello della virtù e della passione repubblicane, che, sole, possono consolidare e fare prosperare lo stato stesso.
Maurizio Griffo
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