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Il diritto di decidere della propria esistenza e la questione del suicidio assistito – temi dall’ampia portata etica, giuridica, filosofica e, per ciascun credente, religiosa, – emergono con garbo, mentre le parole scorrono veloci, libere da retorica e sentimentalismi, si sorride e ci si commuove. Una storia ben scritta, difficile da dimenticare, dove commedia e tragedia si mescolano.
Chi conosce l'autrice saprà sicuramente che i suoi romanzi sono autobiografici, cambia soltanto il modo in cui viene raccontata, più o meno, la storia della sua famiglia. In ogni pagina non si può fare a meno di emozionarsi riflettendo su come (e quanto) abbia amato la sorella e il padre, entrambe anime tormentate. Penso che questo sia il suo libro più intenso e, forse, il più sofferto. Tanta stima per chi riesce a mettere nero su bianco il proprio dolore con tutto questo amore.
È il primo libro che leggo di Miriam Toews e mi è piaciuto tantissimo, sia per lo stile che per il rapporto tra i personaggi, raccontato in modo profondo e umano. Drammatico e allo stesso tempo pieno di voglia di vivere. Da leggere tutto d'un fiato.
Recensioni
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Vincitore Premio Sinbad 2015 - Narrativa straniera.
Smettila soltanto di mentirmi su cos’è la vita, dice Elf.
Benissimo, Elf, smetterò di mentirti quando tu smetterai di cercare di ammazzarti.
Allora Elf mi dice che dentro di sé ha un pianoforte di vetro. Ed è terrorizzata all’idea che possa rompersi. Non può permettere che si rompa. Mi dice che è schiacciato sotto la parte destra del suo stomaco, che a tratti sente gli spigoli duri premerle contro la pelle, che teme possa trafiggerla, e di morire dissanguata.
C’è la depressione. C’è il dolore vero. E una scrittura magnifica. Vanity Fair
Forse è vero che uno scrittore scrive sempre di sé. Forse la grandezza di uno scrittore sta proprio in questo, nello scrivere sempre di sé mentre in apparenza scrive d’altro, riuscendo ad allargare la propria esperienza personale, trasformandola in qualcosa di universale. Dieci anni fa avevo letto, restandone molto colpita, “Un complicato atto d’amore”, di Miriam Toews. Avevo appreso della comunità mennonita a cui il suo fondatore, l’olandese Menno Simons, aveva dato regole severissime nel lontano 1540. E tuttavia le stesse regole che hanno qualcosa di implacabile sono tuttora valide ai nostri giorni nella cittadina di East Village, nel Manitoba, in Canada, dove vive la famiglia von Riesen, per molti versi simile alla famiglia Nickels del primo romanzo di Miriam Toews. Padre, madre, due sorelle. Un padre ossequioso alle leggi, una madre con una straordinaria energia vitale, una sorella maggiore decisamente ribelle e infine lei, la sorellina di sei anni più giovane, voce narrante di “I miei piccoli dispiaceri”.
Quella che Yolandi, alter ego di Mriam Toews, racconta, è una storia autobiografica. E’ la storia del viaggio verso la morte della sorella Elfrieda. Una morte cercata, voluta, desiderata, implorata. E’ una storia tristissima. Potrebbe essere solo una storia tristissima se non fosse che il piatto della bilancia della disperazione è equilibrato da quello traboccante del brio, dell’umorismo e della forza positiva di Yolandi. Elfrieda è in ospedale. Una volta, due volte. Non c’è il due senza il tre. Si riesce veramente ad impedire a qualcuno di suicidarsi, se proprio vuole? Elfrieda aveva chiesto aiuto alla sorella, unita a lei da un legame fortissimo, perché la aiutasse a ricorrere alla morte assistita. E Yolandi prende in considerazione la possibilità in pagine che oscillano tra il macabro e il comico mentre si informa su google dei costi in Svizzera, oppure in Messico dove, però, bisogna addentrarsi in quartieri pericolosi (pericolosi per chi? per chi sarebbe felice in ogni caso di morire in qualsiasi maniera?) per procurarsi i medicinali letali, chiedendo nello stesso tempo ad un amico avvocato se lei, Yolandi, corresse il rischio di essere incriminata per averla aiutata. E poi, ha senso sorvegliare a vista una persona se c’è forse un gene ereditario che spinge al suicidio? nella loro famiglia si erano suicidati il padre, una cugina…
Si parla tanto di morte, cercata, arrivata per caso a chi non se l’aspettava (una zia venuta ad aiutare la madre), e tuttavia, parallelamente, si esalta la vita. E’ difficile far combaciare le due figure di Elfrieda, quella ormai trasparente nel letto di ospedale e quella dagli occhi verdi, il sorriso smagliante e i capelli al vento che aveva suonato Rachmaninov sfidando gli anziani della comunità che erano venuti per opporsi alla sua musica (peccaminosa) e alla sua iscrizione all’università (il posto delle donne è a casa, a fare figli), Elfrieda iconoclasta che lascia la sua firma in rosso sui muri, Elfrieda grande pianista capace di commuovere le folle, Elfrieda che aveva tutto, proprio tutto, anche un marito che la adora e un agente che arriva dall’Italia con un enorme fascio di fiori, Elfrieda maestra di vita della sorellina che è il suo opposto, casinista, squinternata, due figli da due diversi mariti, un divorzio in corso, un romanzo iniziato, senza capo né coda, che si porta dietro in un sacchetto del supermercato. Eppure, tutto l’amore, del marito, della sorella, della madre (personaggio straordinario nella sua stravagante ingenuità e purezza di cuore), non è sufficiente per ancorare Elfrieda.
Fortemente drammatico e teneramente buffo, spruzzato di riferimenti letterari (il titolo è una citazione di Coleridge, uno dei ‘fidanzati letterari’ di Elfrieda di cui Yolandi è gelosa), “I miei piccoli dispiaceri” è opera di una scrittrice che sa costruire un mondo su ogni frammento di ricordo.
A cura di Wuz.it
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