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Anno edizione: 2016
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C'è poco da dire, come la maggior parte delle sue opere un capolavoro.
Recensioni
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In una poesia di Charles Wright c’è un intenso ritratto di Ezra Pound anziano a Venezia (che possiamo ora leggere nella traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan: in Italia, Donzelli 2016):
E lui è sopravvissuto,
o si è rifiutato di accodarsi, e adesso
passeggia nello stroboscopio lento del sole,
o siede nelle sue stanze ovattate,
e si chiede dove le cose sono andate storte,
e tende l’orecchio alla trasmissione, al sommesso
frusciare d’ali, al tuffo di un remo.
È questo Pound con l’orecchio teso, lo sguardo fisso al trascolorare dell’acqua dei canali e chiuso nel suo mutismo proverbiale, a suggellare nel luglio del 1972 una raccolta di buona parte delle sue prose sparse (su poesia, economia e politica) con una stringata prefazione: l’attività critica e polemistica di più di un cinquantennio è qualificata con netto understatement come “scampoli di chiacchiere da bar”. Quelle pagine erano naturalmente molto di più, non solo testimonianze di un “generoso errare”, ma di certo scritti da leggere tenendo bene in mente come pietra di paragone l’impresa strenua e contraddittoria dei Cantos.
La raccolta si apre con la serie più antica di articoli, datati ancor prima della Grande Guerra, per finire nel 1965 con il necrologio per Eliot, il poeta eccellente “che ha raggiunto il grado di eminenza suprema tra i critici inglesi principalmente travestendosi da cadavere”, l’“Old Possum” di cui “Uncle Ez” era stato “miglior fabbro” sforbiciando la sua Waste Land. Già in Raccolgo le membra di Osiride si preannunciano gli interessi di Pound nei decenni a venire: con quell’insistere sulla sfuggente eppure imperterrita “virtù” individuale del poeta, che “trova il dettaglio luminoso e lo mostra. Non commenta”, e su quello erige il proprio microcosmo. Siamo già alle soglie di un “metodo ideogrammatico” di scrittura, pronto a riversarsi nella pratica poetica; nutrito da una voracità bisognosa di nuova chiarezza che vede tutte le epoche come contemporanee, tutti i poeti pronti a intrecciarsi in uno stesso gioco. A partire da qui il piglio poundiano è energico, polemico, puntuto, a volte irritante: “Per quel che riguarda l’immortalità dei mortali, il poeta deve solo scoprire la propria virtù e sopravvivere a questa scoperta quel tanto che basta per scrivere qualche decina di versi appena”.
Senza dubbio Pound mostra già a quest’altezza un tratto da poeta arcaico, da legislatore in ombra dell’umanità, “conservatore di un linguaggio pubblico”, custode ed esortatore di una comunità. Non gli accadrà di perderlo in futuro. Se “gli effetti del male sociale si manifestano innanzitutto nelle arti”, e “la maggior parte di questi mali ha una radice economica”, allora economia, politica e poesia sono intimamente connesse. La lettura degli scritti di Dal naufragio d’Europa lo rivela oggi più che mai. Come un poeta arcaico, Pound cerca il paideuma. Una corrente di enigmatiche energie collettive discende alle epoche attuali da Eleusi. La storia economica è sempre storia di decadenza spirituale: “L’uomo ridotto nemmeno ad un tubo digerente bensì ad un recipiente di moneta che va svalorizzandosi!”.
Per il poeta dei Cantos “ le paradis n’est pas artificiel, l’enfer non plus”: anche l’inferno è vero, la storia delle vittime lo prova, il mondo (come scrisse accennando a Eliot) finisce “non con una lagna ma con uno schianto”. Si direbbe, di fronte alle voci che lamentano la catastrofe, che il caos degli sparsi frammenti che siamo costretti a orecchiare e mettere assieme alla rinfusa rappresenti un attraversamento della notte: obscurum per obscurius. La furia di Pound, con tutti i suoi errori e illusioni, accenna a una per noi tanto più misteriosa, e lontana, nostalgia di qualcosa di perenne.
Recensione di Fabio Pedone.
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