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E’ terribile la vendetta che si prende Nori, nel colloquio con la figlia Irma, di dieci mesi, a cinque pagine dalla chiusura di un libro bellissimo ed emozionante: “Allora, vendetta, quando uno vi fa qualche cosa che vi fa molto male, ma molto, voi vedrete la prima reazione lo vorreste punire, però il problema che si presenta come lo volete punite, lo volete ammazzare? Gli volete sparare? Lo volete massacrare? Gli volete spaccare le gambe? Gli volete dare un fracco di botte? Lo volete esiliare? Qual è la punizione migliore? vi chiederete te e i tuoi coetanei tra poco quando sarete di fronte al problema. Ecco, io lo so, qual è la punizione migliore, mi sembra. La punizione migliore è guardarlo e pensare. La tua punizione, è essere quello che sei”. Chi vedesse in questa sintassi il rischio di una parossistica esasperazione per rendere la mimesi del parlato non ne coglierebbe la sostanza: qua le esigenze di una linearità nella disposizione delle parole, cedono davanti a un sapiente gioco di stimoli tra il contesto, le volontà espressive, gli effetti di una lingua che non ha rinunciato a essere azione. La tensione cognitiva è affidata non solo alla sintassi, ma anche nei titoletti dei brani brevissimi in cui è articolato il testo, che aprono dinamiche di senso, a volte sotto il segno dell’ironia. Efficaci risultano i titoli che rivisitano umoristicamente modi di dire burocratici, inerti, e reintroducono freschezza e soggettività nel rapporto con quanto è scritto. Il romanzo coinvolge, più ancora per il raro civismo con cui vengono frequentate situazioni di per sé ad alto tasso di emotività, per il fatto che chi legge deve decidere come pronunciare ogni enunciato, ricostruendo i contesti di ogni minimo movimento sintattico. Se non si corrisponde a tale sollecitazione, rischia di non venire percepito il concretarsi di una pronuncia, l’energia e quindi tutta l’allegria e la disperazione, con la loro capacità di rendere la comicità grottesca di una realtà capovolta.
Nori vorrebbe essere originale ma il suo "scrivere parlato" avvince e incuriosisce per venti pagine poi annoia. E' una forma di letteratura che si avvita su se stessa.
Un lavoro dove la narrazione lascia troppo spesso spazio al copia e incolla
Recensioni
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Si è detto molte volte delle qualità di Nori. Una voce singolare, la volontà e il desiderio di cambiamento intrinseco alla sua scrittura, la capacità di riconoscere i suoi antecedenti e una quasi conseguente generosità verso coloro i quali, a dispetto della sua giovane età, già lo hanno assunto come modello. Una dimensione finora insondata della sua vasta produzione è invece quella che attiene alla sua passione civile. Non è per aver dedicato questo libro (romanzo? saggio? inchiesta o reportage? domande inutili) che Paolo Nori, quello di Bassotuba non c'è, Pancetta o Ente nazionale della cinematografia popolare diventa d'amblais scrittore politico, intellettuale impegnato. Certo è però che attorno a queste due qualifiche, oggi del tutto fuori moda, Nori svolge un lavoro secco e originale, condensato al massimo nelle strutture sintattiche e nelle scelte di lessico e proprio per questo, in qualche modo, dirompente: almeno rispetto a quanto di norma prodotto dai suoi coetanei (Nori ha quarantatre anni).
Lo dice chiaro e tondo il prologo: "Una vita. Io ormai è una vita, che sono sul punto di rassegnarmi". La questione è quindi prima di tutto quella del tempo e della memoria: di sé, innanzitutto. La voce narrante, s'intende, è la solita: di tratto comico-grottesco, che ha come padre nobile il Celati delle Comiche, Vassalli dell'Arrivo della lozione e altri esordienti quando Nori era più o meno bambino. I fatti di Reggio Emilia, di cui Noi la farem vendetta si occupa, sono di tre anni anteriori alla sua nascita: e di nuovo la questione è quella del tempo. Dei morti di Reggio Emilia, eternati da Fausto Amodei in una canzone famosa, si racconta nel capitolo più lungo (una trentina di pagine), messo quasi in fondo e costruito con una serie di brevi estratti da documenti ufficiali. I fatti: non una strage di stato, delle molte lasciate più o meno senza spiegazione, non un eccidio. Fatti, dati di realtà, che Nori non commenta se non alla fine e in modo indiretto, cioè introducendo la figlia Irma, una bimbetta con cui "va a guardare il mondo". Nori padre che prova a dialogare con la sua bambina, di cui all'inizio del libro confonde il nome, è intanto una felice allegoria della necessità di tramandarsi e tramandare passati. Lo stupore di Paolo Nori padre, che verso la fine del libro progetta un secondo figlio, è un elemento che sembra negare in radice un tema forte della narrazione: la riappropriazione dolorosa di un tempo individuale, personale così lontano dal tempo della storia.
La modalità scelta da Nori è quella, quasi da antropologo, della ricerca sul campo. In questo senso, Noi la farem vendetta è anche un romanzo on the road, in cui i protagonisti non sono però soltanto i morti di Reggio Emilia. Che il primo ministro Tambroni potesse diventare un personaggio di questo spessore in un testo di narratore italiano pareva impensabile e per tutti lo sarebbe stato, eccetto che per il virtuoso Nori, che usa il Grande dizionario enciclopedico dell'Utet (il leggendario "Fedele", dal nome del suo primo direttore) come un'arma contundente. Sull'altro fronte, un Sandro Pertini ancora lontano dalle cariche istituzionali degli anni settanta, comiziante indomito e di loquela infrenabile, che il romanziere contemporaneo chiosa con una specie di commozione rattenuta: "Quei politici lì, come Pertini, che avevan fatto la guerra, che eran stati in prigione, che eran stati al confino, che avevan fatto i muratori, avevan qualcosa, forse il fatto di essere stati in prigione, o di esser stati al confino, o di aver fatto i muratori, avevan qualcosa, quello che dicevano, quei politici lì, che ci si credeva". C'erano tanti modi per dirlo, ma questa è l'inconfondibile maniera di Nori, che come di consueto lavora molto e con profitto anche sul montaggio, che lui chiamerà di sicuro "intreccio".
Non che siano mancati i lavori di ripensamento sulla storia d'Italia del dopoguerra: di recente ce n'è anzi un'abbondanza e sarebbe buona cosa se le patrie lettere conoscessero una fioritura di narrazioni della contemporaneità, svincolata se possibile dalle convenzioni giornalistiche (lavoro precario, difficoltà d'inserimento dei giovani et coetera minima). Nori si muove precisamente in questa direzione. Il suo è un percorso, a dispetto delle apparenze, quasi lineare. Se soltanto adesso, a quarantatre anni, ha deciso di svelare è perché, forse, anche a lui è parsa necessaria una ricostruzione di certi eventi intrecciata, con l'obbligo della memoria, al presente. C'è anche Paul Ricoeur, mai citato (sì però il Kierkegaard eterodosso di Jesi), in queste pagine a tratti persin commoventi, e insomma Paolo Nori, dotto slavista poco oltre la quarantina, si candida a credibile maître à penser per una parte almeno della sua generazione.
Giovanni Choukhadarian
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