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Le prime pagine del libro
Presto ho scoperto di essere morta.
Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti, senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro. Tentazione che prima o poi arriva.
Di recente mi è capitato di vedere in tivù un'intervista a John McEnroe in occasione dell'uscita della sua autobiografia. Campione di stile e tecnica del tennis tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, il numero uno delle classifiche mondiali è diventato un brizzolato e atletico dispensatore di battute in tipico stile dry humour. A un certo punto, mentre proiettano sul fondo dello studio televisivo sequenze dell'incontro più importante della sua carriera, quello disputato con Bjorn Borg a Wimbledon nel 1980, McEnroe si alza dalla sedia e fa una cosa che mi appare incredibile: s'inchina col capo e col busto a se stesso, cioè all'immagine vittoriosa e giovanissima di sé che scorre nel filmato.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime e non faccio nessuno sforzo per trattenermi. Mi abbandono a un pianto disperato e voluttuoso, cercando invano un fazzoletto.
McEnroe stava salutando un se stesso passato, morto.
Era come se dicesse: sei esistito, sei stato quel campione ammirato da tutti. Ora che non sono più te, ora che sono diventato un altro, ti ammiro anche io, ti riconosco per quel che eri. Ti rimpiango.
Spenta la televisione, sono andata a cercare una mia fotografia risalente a una decina di anni prima. Sapevo di averla messa in un raccoglitore, sotto una pila di libri, ma era così ben nascosta che ci ho impiegato un po' a ritrovarla. Questa foto chiude, per me, il XX secolo. Scattata mentre salivo le gradinate del Teatro greco di Taormina, all'inizio di luglio 1999, è l'immagine di una me stessa intatta, in moto, libera. Sono ripresa dal basso, i polpacci spingono verso l'alto, verso gli spalti da cui potrò ammirare meglio la scena e il pendio che dal teatro corre al mare, la schiena scoperta è uno specchio di sole. Sono inerme come può esserlo chi ha fiducia nella vita. La testa piegata di lato, con i capelli raccolti e mossi dal vento, mantiene la concentraSi può procedere, mancano pochi gradini al nuovo secolo e salire non è fatica, se uno sguardo benevolo ti accompagna e scorta i passi in una porzione misurata di cielo, un blu che ti contiene. Ci vuole molta confidenza per lasciarsi fotografare da dietro, la schiena su cui poggia tutto quello che siamo stati non si lascia plasmare dalle occasioni, al contrario della faccia su cui appendiamo il presente, ogni giorno. In quel trapezio di muscoli e ossa, ancora illese, vedo la vulnerabilità di ciò che non ho potuto scegliere, di ciò che mi ha preceduta e seguita, a dispetto di quello che avrei voluto essere.
La distanza tra la fotografia e il presente è incolmabile, si tratta di un'altra persona. Tutta quella luce abbaglia, meglio riporla dov'era, facendo attenzione a non rovinarla con il sudore delle mani, è una stampa di cui forse non esiste nemmeno più il negativo. Avvolta da due fogli di carta la infilo nell'oscurità che la protegge, ne preserva il colore e la grana.
Per una curiosa forma di analogia succede così anche con i ricordi, si consumano se esposti alla quotidianità, tornano a brillare solo se incidentalmente dissepolti: l'oblio e la distanza sono necessari alla conservazione del nucleo di vita che hanno imprigionato. E poi c'è il presente, con la sua pretesa di saperne di più del passato e con la certezza di esserci ancora, rispetto al passato. Ma tanto l'esserci ancora quanto il saperne di più della vita hanno un prezzo, avere un destino è una cosa che si paga.
Ripenso al giorno presago in cui, mentre andavo a prendere il pane, ho incrociato una gita scolastica, un gruppo di ragazzini raccolti intorno a una sedia a rotelle sulla quale sedeva una quindicenne bionda. Non ho fissato i tratti del suo volto. Le ho guardato i piedi, calzati dentro scarpe da ginnastica, immobili sul predellino. Poi sono salita sul marciapiede che la separava da me, venti centimetri invalicabili dalle ruote, e mi sono chiesta com'è vivere così?
Non sapevo, allora, di aver incontrato il mio altro, l'unica possibilità che avrei trovato di raccontare di me.