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Sono nove i racconti di questa raccolta e testimoniano una volta di più le grandi capacità letterarie di Irène Némirovsky. Benchè queste siano ben note sono rimasto sorpreso di trovare una straordinaria abilità nel raccontare trame che potrei definire convenzionali, ma la cui trasposizione beneficia, pur a fronte di uno stile che può apparire semplice, di un’elaborazione completa e complessa in cui si mantengono in perfetto equilibrio le descrizioni dell’ambiente e dell’atmosfera, nonché la capacità indiscutibile di sondare l’animo umano, il tutto accompagnato da una vena poetica tenue, ma incisiva. Così, ognuno di questi racconti diventa l’espressione dell’arte del sublime, tanto belli sono e tanto lasciano nel lettore una palpabile commozione che rasserena l’animo. I protagonisti sono per lo più donne, anche se non mancano soggetti maschili di grande interesse, ma ciò che soprattutto li accomuna è il sempre presente senso della caducità della vita, di quella morte che finisce con il dare un senso alla vita.
Questa raccolta di racconti scritte dalla Némirovsky, già famosa per i suoi tanti romanzi, non delude. Partendo dalla scrittura, a dir poco sublime, che incanta il lettore e lo induce a soffermarsi su ogni parola che legge, godendosela, per poi arrivare al contenuto. All'interno di ogni romanzo ritroviamo i tanti temi già cari alla scrittrice di origine ucraina: la solitudine, la rassegnazione, la vecchiaia vista come una nemica e ovviamente il rapporto madre/figlia ereditato dalla sua stessa esperienza. Non delude mai, consigliatissimo a chi si è già innamorato degli altri suoi scritti.
L’ORCHESSA lo trovo un libro di racconti scritto molto bene—implicitamente vicino al “giardino profumato e tenebroso” nel quale si rifugia François (“La partenza per la festa”) dopo la notizia della morte di Florence—tanto da non smentire la fama della N. romanziera. Anzi, nella forma breve le sue doti di narratrice attenta ai destini umani si intensificano. Avevo già provato questa sensazione leggendo “Come le mosche d’autunno”; ma di fatto ogni prova letteraria di Irène è un ripensare il passato riattualizzandolo nella scrittura, mettendolo in condizione per contrasto tra chiari e scuri—come in pittura—, tra gioie e tristezze—come nella vita—, proustianamente di riaffiorare, recuperando quanto il tempo aveva attutito: e qui ripenso a quanto dice Camille, nel penultimo racconto, di Flora, la ragazza dalla voce di una “innata nobiltà”—mettendo in relazione il carattere di Flora, come lei lo aveva plasmato negli anni, ad un’opera d’arte: “Una mia creazione. Era esattamente questo il mio pensiero segreto. Per me era come un libro, come un quadro”. E appunto questo mi attrae: in Camille ritrovo qualcosa di Irène, della potenzialità demiurgica della scrittrice. Di quel pensare solo ad un personaggio, alle sue metamorfosi, mentre si scrive. E poi lo dice lei stessa attraverso Camille: “Si crea un’opera d’arte con materiali banali o inanimati, con la pietra e un martello, con una tela e dei colori, perché non con la carne e con il sangue? Imprimere la propria personalità ad un altro corpo”. La scrittura della N. si serve di un materiale vivo, dato dall’esperienza, incontrato vivendo per imprimere su questo la sua visione; ma senza falsificare la verità in esso nascosta, al contrario esaltandola. Vivificando ulteriormente, in un giocare à la Pigmalione, un percorso di vita che altrimenti rischierebbe di perdersi nel flusso indistinto della realtà. Dando un risalto artistico a ciò che è vita, come inversamente il Pigmalione ovidiano infondeva la vita in una statua di marmo.
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