"Manganelli è il linguaggio", sostiene Paolo Terni, introducendo l'ultima delle cinque puntate radiofoniche andate in onda su Radio 3, dal 14 al 18 luglio 1980. Un anno dopo l'uscita di
Centuria, a tre anni da
Pinocchio: un libro parallelo, a tredici da
La letteratura come menzogna, a sedici anni dal suo ilarotragico esordio. Del "malinconico tapiro" scomparso il 28 maggio 1990, conoscevamo bene soltanto le opere, i dissacranti corsivi, i "vagheggiamenti" nell'Europa del nord e gli "esperimenti" indiani, gli scritti sull'arte e i nuovissimi commenti a tutti quegli scrittori che potevano vantare il privilegio di rientrare nel suo severissimo canone. Dopo un timido tentativo di Sellerio nel 2001, finalmente, viene fuori un libro icastico e amicale, danzante e necessario, un libro che possiede la "pulsione negromantica" di un romanzo storico e ci presenta un Manganelli intimo, presumibilmente autentico, profondamente vulnerabile (Giorgio Manganelli,
Una profonda invidia per la musica. Invenzioni a due voci con Paolo Terni, a cura di Andrea Cortellessa, pp. 168, 24, L'orma, Roma 2014). Un libro sull'ascolto, prima di tutto, visto che ventiquattro anni d'assenza cominciavano a farsi sentire. Allegato e nascosto dietro il risvolto di copertina, c'è un disco che recupera interamente lo scambio di voci tra un musicologo (Terni) e un letterato (Manganelli), separando le cinque puntate come fossero tracce musicali, e regalando un estratto da
Rumori o voci (1987), letto e interpretato da Marisa Fabbri. Si parla del dominio di Wagner, in cui si forma "l'onnipotenza onirica" di un adolescente; di Haydn, un "musicista platonico"; della
Nona di Beethoven diretta da Toscanini, "mediazione verso un mondo invisibile ed estremamente pregnante"; di Stravinskij e della sua "capacità di essere contemporaneamente buffone e liturgico"; di Verdi, con cui si passa "da un estremo entusiasmo a un disorientamento". Secondo Terni, la musica pensa, e noi questo pensiero lo dobbiamo ascoltare. Nella musica ritroviamo le condizioni di un continuo risveglio del pensiero, sentiamo continuamente il bisogno di rinascere. È indubbio che Manganelli fosse d'accordo. Queste "invenzioni a due voci", conversazioni, dialoghi, ascolti, silenzi, sospiri, risa, rappresentano l'occasione opportuna per ribadire la condizione limitata e limitante di chi è condannato a recitare la parte dello scrittore, agognante di espiare la vergogna, il disonore, il peso, "l'onta del significato". In un'intervista uscita sul "Corriere della Sera" nel novembre del 1983 (ripubblicata poi in
La penombra mentale, Editori Riuniti, 2001), Manganelli avrebbe chiarito, una volta per tutte, la sua poetica. Una poetica del suono e non del significato: "Si è cercato, insomma, di persuaderci che le parole hanno un significato e non un suono, o, se hanno un suono, è un suono immorale. Personalmente, credo che le parole siano certamente un suono, ma non sono sicuro che abbiano un significato". E proprio da qui nasce "la profonda invidia per la musica". "Più libera e più inventiva, più naturalmente fantastica", le cui pause e silenzi hanno la medesima funzione delle note, dei suoni. Lo scrittore, o meglio "uno che scrive", secondo Manganelli, potrà sperimentare all'infinito la cosiddetta riga bianca, "la condizione di non-pagina", quella brevissima illusione non scritta in cui non dovrà più preoccuparsi di essere definito o costretto in un ruolo, in cui non dovrà più tener conto delle disposizioni altrui, editori o direttori che siano (in sintesi, "tiranni"), non dovrà più pensare alla ricezione, ai lettori nati e a quelli non nati, in cui potrà dimenticare la barbarie della carta stampata e della presunta utilità delle parole, schiava dei capitoli, delle copertine e, soprattutto, dell'istanza autoriale. Lo scrittore, però, dovrà anche fare ritorno sulla pagina, pensarsi come istituzione di fronte a un pubblico, un pubblico ingordo, affamato di trovare un senso, un messaggio chiaro e compiuto, un significato. Le "righe bianche" della musica, invece, sono una "nota particolare il cui grado è caratterizzato dal manifestarsi dell'assenza". Quell'assenza che Manganelli avrebbe decantato, un anno dopo, in
Amore (Rizzoli, 1981): "Non dirmi che, nel nulla, noi stiamo comunque sempre. Non contendiamoci il privilegio dei giochi di parole. Io adoro chi sa veramente non esistere, amore". L'assenza,
deus ex machina di ogni legame, in una mistione leopardiana d'illusioni e patimenti capaci di confondere la solitudine con la compagnia, i desideri con la noia, i suoni con il silenzio. L'assenza, nella musica, non è altro che una "variazione", cui Manganelli guarda con invidia, riconoscendone la dimensione di "fecondità e sterilità in uno spazio in cui niente nasce e tutto si moltiplica". L'assenza, fedele compagna dell'immaginazione, porta con sé le turbe, i ricordi, e diviene madre di ipotesi, di allusioni, di indizi, di richiami mascherati da "rumori o voci"; "E, certo, questa condizione non sarà esente da sgomento, da angoscia, e da una certa forma di paura, che forse posso sospettare: come a dire, la paura di ciò che ci ignora e che tuttavia non è privo di rapporti con noi, sebbene nessuno possa dire di quali rapporti"(
Rumori o Voci, Rizzoli, 1987). I rumori, dunque, le voci in lontananza, la lenta agnizione di un suono, sono concepibili se riferiti unicamente all'universo libero e incontaminato della musica: "Sotto un la si trova lo stesso la all'infinito, che ripete se stesso, senza dare spiegazioni". Il "rumore sottile della prosa", invece, è ingannevole, ambiguo, è una pura "menzogna", poiché necessita sempre di andare oltre se stesso. La letteratura, da sola, non basta alla letteratura, alla continua ricerca di risposte e d'immagini riflesse nell'ipocrisia degli specchi umani. "È scrittore colui per il quale il linguaggio costituisce un problema, che ne sperimenta la profondità, non la strumentalità o la bellezza", scriveva Barthes. Manganelli concorda e si fa carnefice di concetti, uccide l'autore non riconoscendosi come tale, negandosi ogni sorta di responsabilità nell'esito, essendo stato scelto dall'aspirante scritto e non il contrario. "Io mi sento anche meschino ed invidioso afferma nella quarta puntata radiofonica mi sento assassino potenziale di musicisti". Nel quotidiano, poi, in quel diluvio di speranze chiamato realtà, i suoni fungono da avvertimento, fin dal principio. Manganelli, difatti, concepisce la nascita come "congedo", come drastica separazione dal silenzio e dalla pace, come approdo in un luogo d'esilio assordante: "Signori, il frastuono che mi viene addosso alle spalle ormai mi assorda; per la prima volta i miei occhi sperimentano il buio; addio, io cado, io vi perdo, io nasco". (
Tutti gli errori, Rizzoli, 1986) Ai suoni, Manganelli preferisce i rumori, il più delle volte indefiniti e vaghi. Li preferisce come tracce, come epifanie dell'assenza, meno nocive dei corpi femminei dotati di ombre. Questo vale anche per le donne evocate e insinuate d'inchiostro, come Valentina, il fumetto creato dalla mano elegante di Guido Crepax nel 1965, cui Manganelli scriverà una lettera a vent'anni dalla sua "nascita": "Ma a te non occorre esistere. Tengono il tuo posto odori, strani scricchiolii, ossa o carta, il fruscio di qualcuno che cammina. Valentina. Ripeto il tuo nome. amo il tuo nome? Se lo pronuncio, piango d'un fiato: carissima. Come sempre, lì mi fermo. E scrivo, e dico: punto". Come dice bene Andrea Cortellessa, in questo libro c'è la chiave più profonda per capire Manganelli, e tutto nasce da quest'intreccio di voci.
Una profonda invidia per la musica è una sintesi dei punti focali del pensiero manganelliano. In ogni pagina, ci si accorge della sua natura centrifuga, della sua funzione di rimando ad altre pagine, con la felice cognizione di un lettore che non arriverà mai al dunque. Manganelli è un classico, "perché provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso" (Calvino). Se dovessero chiedervi di cosa tratta questo libro, a quale genere appartiene, a chi è rivolto e, soprattutto, chi sia questo Manganelli di cui tutti parlano ultimamente, ricordatevi "l'epitaffio" terniano: Manganelli è il linguaggio. Giorgio Biferali