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recensione di Roccato, P., L'Indice 1992, n. 4
(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)
Il mondo è "a rischio". Pochi sanno che, a parte le guerre, ogni settimana si verifica un disastro che necessita di aiuti internazionali oppure che molte popolazioni hanno dovuto accettare una quotidiana esposizione a disastri, strutturando specifiche "disaster cultures". La definizione di catastrofe è legata alla relatività di parametri antropologici: è una rottura dell'ecologia umana che la comunità colpita non è in grado di superare con le sole proprie risorse. L'impatto traumatico è collettivo, e i soccorsi devono tener conto anzitutto delle caratteristiche della popolazione colpita, senza costringerla a schemi in conflitto con la propria cultura (rottura di nuclei familiari nei campi di raccolta; cibi proibiti dalla religione; ecc.) che aumentando il senso di abbandono susciterebbero incomprensioni, rifiuto, rabbia e disperazione. Ma nell'urgenza di far fronte alle necessità materiali si tende a trascurare la condizione psicologica delle vittime e dei soccorritori, aumentando il rischio di patologie mentali nel breve e nel lungo periodo. Le stesse risorse materiali risultano utilizzabili solo se si recuperano e si salvaguardano le capacità psichiche degli interessati. Anche il ridurre tutto a "cose", più ancora che un'ideologia reificante, è una specifica difesa dell'impatto emotivo con la catastrofe.
Non è dunque un lusso occuparsi delle reazioni psicologiche alle catastrofi, ma un'esigenza che non va affidata all'improvvisazione, tanto più che, pressati dall'urgenza dei bisogni primari, è difficile inventare soluzioni estemporanee. È, invece, necessaria una consistente fase di studio e documentazione prima dell'emergere dell'urgenza e ancor più prima di approntare servizi di protezione civile e di pensare a specifici operatori. È questo lo scopo di questo sintetico libro, rigoroso nell'impianto teorico e attento alla concreta utilizzabilità delle idee. Gli autori, coadiuvati da Massimo Baldazzi, Laura Gualco, Serena Marchini e Stefano Cicchetti, riportano in sintesi la revisione critica di tutta la letteratura mondiale sui disturbi psichici post-disastro, nei cinque filoni dell'"epidemiologia" (studio delle diversità nelle reazioni all'evento in funzione della collocazione geografica e sociale delle persone: colpiti, parenti, amici; soccorritori professionali o volontari; provvisti o meno di risorse alternative o di responsabilità prima, durante o dopo; ecc.); dell'eziopatogenesi (cause e modalità di strutturazione dei vari disturbi); della clinica (tipi di manifestazione e loro significato adattivo individuale, relazionale e sociale); della "terapia" e della "prevenzione". Una conclusione pare certa: si può controllare l'angoscia solo se si è pensato al disastro. È importante, per esempio, che i superstiti possano vedere i resti dei loro morti e le rovine degli ambienti; che le informazioni siano sollecite, assidue e veritiere; che non si usino psicofarmaci per inibire emozioni adeguate; che si favorisca l'espressione dell'angoscia (anche per gli operatori.) e il riconoscimento della sua sensatezza, allestendo dei gruppi sul campo; che i progetti non passino sulla testa delle persone, ma le coinvolgano direttamente. L'interesse per lo studio di questi eventi al limite della sopportabilità va al di là dell'apprestamento di servizi di protezione civile: può gettare luce anche sulle modalità in cui i traumi psichici divengono patogeni.
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