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Nell’alternarsi di banalità quotidiane e tragedia, fra queste tre coppie di sorelle rimbalzano come in un gioco di specchi gli interrogativi dell’oggi: i conflitti, le barriere che frantumano la verità e la vita, la paura dell’Altro che fa da scudo alla paura di ascoltare noi stessi.
Tre coppie di sorelle che a Tebe nel passato remoto, a Sarajevo e Roma nel passato recente, si attraggono, si respingono, si interrogano sulla vita e sulla guerra e sul come da un Noi si possa inesorabilmente passare ad un solitario Io. Bello l’incipit con quel ritorno a casa in una giornata che da “normale” diventa cascata di ricordi. Un bus, un ragazzotto un po’ bullo da una parte, una voce che risponde a telefono dall’altra e quella domanda “ ma perché te la sei presa in casa?” che qualcuno rivolge ad una sconosciuta per ricordare ciò che si era ormai sedimentato nella mente. E la narrazione, che alterna alcuni passi di Ismene al racconto in prima persona, passa attraverso le varie fasi di una amicizia che è silenziosa perché se tanta e convinta è l’accoglienza “ il resto è silenzio” e Musnada è sempre più trincerata dietro un mutismo dal quale esce per scrivere in italiano files di poesie o di storie che forse vorrebbero far intendere una verità taciuta. Un libro che prende l’anima: sembra quasi di vedere Musnada (Pacifica, la traduzione del suo nome) alle prese con i sensi di colpa, alle prese con una voglia insana di non essere che passa attraverso l’inappetenza e il malessere. Sembra quasi di percepire il malessere di Sara che si trova in casa un’estranea, per quanto collega, e alterna una velata gelosia alla rabbia di non riuscire a gestire un rapporto per lo più fatto di silenzi. Trenta anni sono passati da quel momento mentre un’altra guerra sta facendo stragi in Europa minacciando la serenità di tutti
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