Indice
Le prime pagine del romanzo
EDWINA esce dall’acqua reggendosi a entrambi i rubinetti; la vasca da bagno scricchiola come se potesse staccarsi dagli ormeggi. Con i bordi arrotondati e lo smalto bianco crepato, la vasca ha vaste incrostazioni color tè. Qua va tutto a pezzi, pensa Edwina, pulendo lo specchio dal vapore e ridendo del proprio riflesso.
Chi diavolo è questa donna minuscola con i capelli argento e gli occhi marrone scoiattolo? Che fine ha fatto la bella brunetta di ventidue anni, con il sorriso stampato sulle labbra tinte di rosso e il pancino tondo come quello di un bimbo?
È ancora dentro di me, decide Edwina, pensando alla matrioska che possedeva un tempo.
Tutte le Edwine sono ancora qui: dalla solitaria allieva di un college alla sensibile studentessa di arte, dalla giovane moglie alla madre, alla vedova: tutte le sue precedenti identità incassate una dentro l’altra, fino alla bambolina più piccola che è sepolta nel profondo di se stessa, grande come un’arachide, immagina lei.
Sono sempre io, decide, e si siede per asciugarsi. L’asciugamano è logoro e lo specchio macchiato dall’età.
Prima dell’intervento di cataratta, Edwina era beatamente ignara di tutti questi segni di decadimento, ma l’anno scorso, quando è tornata a casa dall’Ospedale oftalmico Moorfields con le nuove lenti intraoculari in plastica, di colpo ha notato la filigrana di ragnatele che pendevano dal soffitto, gli escrementi dei topi nei cassetti della cucina e i tarli che impazzavano dappertutto.
La casa ha cominciato a rivoltarlesi contro. Ogni giorno vengono fuori nuovi problemi, è peggio di un bambino malaticcio. Ci sono crepe sottili che corrono lungo i battiscopa; zaffate di rancido che le fanno venire un groppo alla gola; la catenella dello sciacquone nel gabinetto del piano di sotto è consumata e lei ha dovuto farci già un paio di nodi.
Il giardino minaccia un’invasione; le finestre del seminterrato sono verde bottiglia: l’edera è così fitta che anche in giugno la cucina è immersa in una penombra da giungla.
È come se la casa le stesse dicendo di andarsene; il tempo assegnato a Edwina è scaduto, è il turno di qualcun altro.
Questo posto ha bisogno di una mano più ferma di quella piena di macchie di vecchiaia che stringe il corrimano della ringhiera… la mia mano, si rende conto Edwina, la mia piccola, decrepita mano.
Le case georgiane sono nemiche degli anziani, riflette ancora, e a passi lenti torna verso la camera da letto, dove la moquette ha delle efelidi di muffa, e lei deve fare appello a tutte le sue forze per aprire il cassetto della biancheria, nel comò di mogano.
Il comò era un regalo dei genitori di Oliver, tutti i mobili buoni sono arrivati da loro… come la vecchia pendola, con la faccia cordiale del sole e della luna sorridenti nonostante le lancette sempre ferme sulle otto e venti.
Del mattino o della sera?
Edwina a volte si confonde. Fa del suo meglio per tenere in esercizio la mente e il corpo: un po’ di yoga per sciogliere i muscoli al mattino, prima di vestirsi; qualche rotazione del collo per alleviare il cigolio delle spalle. Quanto alla mente, Edwina è una donna colta, di buone letture; gli scaffali della sua libreria gemono non tanto per la carie del legno ma per la mole dei volumi di ogni genere immaginabile, dalla letteratura femminile moderna ai libri della Ladybird sui fiori selvatici inglesi, fino ai pesanti tomi dei finalisti del Booker Prize.
Nella borsetta Edwina ha la tessera della National Gallery e della Tate, sono scadute, eppure…
Edwina si apostrofa in tono brusco: Sei una donna lucida e intelligente. Ogni tanto ancora riesci a battere i super esperti di quel quiz della BBC, Eggheads, e, se volessi prenderti questa briga, saresti ancora capace di organizzare un pranzo per dodici persone.
Non che ce ne sia bisogno: i tempi della sala da pranzo illuminata dalle candele e luccicante d’argenteria sono passati da un pezzo. Ormai Edwina mangia quasi sempre giù in cucina, nel seminterrato: dopo tutto, vassoi e scalini sono una combinazione letale.
Parti sempre più ampie della casa ormai sono inutilizzate; in certe stanze Edwina non si avventura da mesi.
Forse dovrebbe concedersi una sorta di visita guidata di questo posto, cercando di vederlo come lo vedrebbero gli altri, o forse è semplicemente arrivato il momento di venderlo.
Ha già avuto questo pensiero, e ogni volta l’ha scacciato quasi subito, la sola idea le sembrava ridicola. Ma stavolta no; stavolta, tutt’a un tratto, le pare una prospettiva sensata. Edwina non vuole più essere prigioniera del passato.
Ovviamente mi toccherà dare una bella pulita, pensa, e rifarmi il letto per la prima volta dopo parecchie settimane. In genere questa incombenza le sembra veramente inutile: lei si alza tardi, e nel pomeriggio fa sempre un lungo pisolino; la sera, poi, va a letto presto. Le lenzuola sono sudicie. Un tempo c’era chi le dava una mano in casa, chi pensava a fare il bucato e a stirare, ma Alicia è andata in pensione ormai da una decina d’anni e lo stress di cercare una persona nuova è più di quanto Edwina possa sopportare.
Oggigiorno bisogna fare tutto attraverso Internet. Cinquanta e passa anni fa, lei conobbe Alicia per caso, mentre era seduta su una panchina, al parco, e due ore dopo le aveva offerto il lavoro. Ah, ma queste sono cose passate!
Che tesoro, Alicia, che ancora le manda delle lettere da St Lucia: buste gonfie di foto dei pronipoti: Edwin, Lucinda, Cuthbert, Dibble, Grub.
Di tanto in tanto Edwina le risponde con una cartolina scribacchiata in fretta e furia. Ha comprato un sacco di cartoline con le opere di David Hockney, quando ci fu quella mostra alla Royal Academy. Quand’è stato? L’anno scorso o quello prima ancora?
Negli ultimi tempi non è andata a tante mostre; il che è stupido, se si pensa che l’autobus per il centro le passa proprio davanti a casa; ma a volte è più facile restarsene nella cuccia a guardare in tv trasmissioni dedicate all’antiquariato.
Edwina s’infila un paio di pantaloni di velluto a coste verde oliva; pesa quanto pesava il giorno in cui si sposò la prima volta, per non dire della seconda.
Per un istante ricorda i suoi due matrimoni, entrambi celebrati alla svelta nell’Ufficio di stato civile, entrambi senza la luna di miele; il primo in un ottimistico abito bianco lungo fino al ginocchio; il secondo, in un prudente grigio.
Naturalmente il peso di Edwina negli anni ha avuto delle fluttuazioni, ma non è mai andata oltre la taglia 42, salvo quando aspettava i bambini, ovvio.
Questi pantaloni di velluto li ha comprati negli anni Ottanta, e all’epoca erano piuttosto costosi; Edwina ha sempre amato i bei vestiti. Ancora adesso è una donna elegante, ed è un vero peccato che nel cassetto dove tiene le cose di lana si siano insinuate le tarme. Il maglione che ora si sta infilando ha un merletto di buchi sui polsini e sotto le ascelle. Oh, beh, almeno la tiene calda.
Alcuni caloriferi non funzionano, forse andrebbero sfiatati.
Edwina si siede sulla poltrona di vimini che è stata sempre accanto al comò. La seduta è di un rosa sbiadito, e non c’è verso che riesca a ricordarsi se ci si è mai seduta prima. Ma non ha importanza, proprio no; in realtà, niente ha più importanza ora, è arrivato il momento di lasciare un po’ tutto: i radiatori da sfiatare, il calcare e le tarme. È rimasta aggrappata a questa casa fin troppo a lungo. Come l’edera sul retro, è arrivata l’ora di liberarsi. Deve chiudersi per sempre alle spalle la porta del civico 137.
Prenderà con sé solo alcuni ricordi, riempirà una borsa di ricordi buoni, non le servono chissà che valigie. Sono tantissime le cose che può lasciare dietro di sé.
Com’è strano che debba essere lei l’ultima ad abbandonare questo posto, pensa, e per un nano secondo li sente, sente che corrono su e giù per le scale, sente i ruzzoloni e le risate, seguite da questo silenzio.
Non piangere, ricorda a se stessa.