Più che la scrittura, è la struttura. Sfogliando il nuovo romanzo di Giorgio Van Straten si è subito attratti dall’indice, dalla particolare ripartizione dei capitoli: tutto il testo è infatti fondato sul principio cardine dell’alternanza. Lo scrittore fiorentino, premio Viareggio nel 2000 con
Il mio nome a memoria (Mondadori), ha costruito un racconto
nel quale la materia narrativa è ordinata in due sezioni temporali opposte e speculari, intrecciate capitolo dopo capitolo in maniera progressiva.
Narratore della contemporaneità è il dottor Capecchi, un “semplice bibliotecario con la passione per la ricerca storica”, uomo dall’esistenza quieta e grigia. In cerca di un evento che possa modificare l’inerzia della sua vita, egli intervista Antonio Manca (per cinquant’anni uno degli uomini politici più influenti del paese) con l’intento di redigerne una biografia. Ormai novantenne e quasi incapace di camminare, Manca è una riuscita figura di vecchio in cui Van Straten accosta la lucidità e la ponderatezza di Andreotti alla ruvidezza e alla “sardità” di Cossiga.
Nel tessuto delle loro conversazioni Capecchi individua un’omissione che diventa lo spiraglio capace di stimolare la sua ricerca storica e che insieme rappresenta l’idea creativa, la sostanza del romanzo: il nome di Enrico Foà, pronunciato da Manca e subito negato, non è presente in nessun archivio. Grazie a questo nome e a una visita al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, il bibliotecario rintraccia Miriam Levi. È lei, ebrea fuggita in Argentina dopo la liberazione, la narratrice dell’anteriorità, della
Storia d’amore in tempo di guerra. E, benché durante il loro breve colloquio nella hall di un albergo milanese l’anziana donna riveli solo pochissimo di ciò che sa, al rientro in Sudamerica deciderà di registrare la sua voce e inviarla a Capecchi per raccontare chi era Enrico Foà, come si sono amati e perché si sono persi. Questa registrazione divisa in undici parti (
Miriam_uno.m4a,
Miriam_dos.m4a, etc.) l’aspirante storico la riceve alla fine del romanzo, ma è tuttavia avvicendata sin da subito con i capitoli dell’intervista e costituisce la più felice invenzione di questo testo in cui Van Straten ci conduce per gradi lungo la ricostruzione di una vita e di una storia, realizzando una riflessione su memoria e scrittura della memoria.
Sorta di autobiografia di una passione, la testimonianza di Miriam è un sofferto
nòstos alla sua patria sentimentale, è un viaggio a ritroso nella giovinezza e nel dolore, in quel ghetto di Roma teatro della fondazione di un amore: “Eravamo in una bolla, non ci accorgevamo di quello che avveniva intorno a noi. (…). Non è che l’abbia dimenticato: è che nemmeno allora ho visto o sentito niente che non fossero le parole di Enrico o le mie, le nostre mani che si stringevano”. Perché (sembra suggerirci l’autore) l’amore funziona come la memoria. Ovatta la realtà, sfoca gli angoli, illumina e rende indelebile solo il centro. L’amore è selettivo, sceglie cosa serbare della vita. Ricordare, tuttavia, è provare dolore. E se all’età di Miriam i nomi sono ormai materia talmente impalpabile e leggera da essere “volati da qualche altra parte e farli tornare è così faticoso che
ha lasciato perdere”, il ricordo tormentoso della vita passata resta intatto con tutto il suo peso e la storia è una tipologia di racconto in cui l’invenzione non può intervenire a modificare l’esito degli eventi: “non si tratta di una fiaba”, afferma con rammarico la protagonista, “perché non sto inventando niente, è tutto vero. E purtroppo non ho la libertà di cambiare la fine”.
La specularità delle due costruzioni narrative (in entrambe infatti c’è un personaggio che racconta il proprio passato e un altro che ascolta) è rafforzata dalla presenza di una vicenda sentimentale parallela, ambientata nel tempo presente, tra il bibliotecario e Federica. Ma questa relazione balbettante, in cui entrambi sono incapaci di dedicarsi l’uno all’altra, sembra essere solo la riedizione sbiadita di quella tra Miriam ed Enrico, e la struttura antitetica aiuta a mettere in luce da un lato il contrasto tra un amore puro, eccezionale, ricambiato e un
affaire ordinario e instabile e dall’altro il senso di vanità dei sentimenti attuali opposto alla percezione dolente della perdita di anni e sentimenti irripetibili.
Al lettore memore di certa letteratura d’ispirazione strutturalista, si presenta così davanti agli occhi un quadro letterario in cui al tempo passato della vita (reso presente dal ricordo) si alterna il tempo dimenticato dalla storia reso attuale dal racconto, che in questo romanzo corrisponde a una affascinante doppia scrittura della memoria. Solo in questo modo l’amore può rivivere nel ricordo intimo di Miriam (che giunge al lettore come una voce ormai distante, altra) e la pena può forse essere comunicata senza più sofferenza, a patto che tra dolore e racconto del dolore si siano interposti i filtri del tempo e della lontananza.
Niccolò Pagani