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Primo di tre volumi dedicati alla famiglia in Europa dalla fine del medioevo a oggi, che Laterza e la Yale University Press pubblicano contemporaneamente in inglese e in italiano, il libro riporta alla luce aspetti della vita domestica assai distanti dall'immagine stereotipata che oggi ha a che fare con le tradizioni del vecchio continente. La grande e stabile famiglia patriarcale dei nostri avi, gerarchica e prolifica, sinonimo di certezze, ruoli definiti e protezione, che le molte famiglie del presente piccole, fragili, infeconde non sanno più garantire, esce letteralmente a pezzi da quest'opera di sintesi e di aggiornamento in chiave comparativa sugli ultimi quarant'anni di studi.
Sono molte le sorprese: non solo non è mai esistito un unico modello familiare, neppure all'interno di gruppi sociali omogenei, ma erano diverse la legislazione e l'applicazione del diritto, con una miriade di consuetudini locali che introducevano infinite eccezioni (Lloyd Bonfield). La polarizzazione tra Est e Ovest, che aveva la sua massima espressione nella servitù della gleba (Karl Kaser), era complicata da numerose altre varianti nei sistemi ereditari, negli usi matrimoniali, nella puericultura, nell'atteggiamento verso gli anziani, le vedove, gli illegittimi, gli orfani, gli esposti. Il dominio maschile non era così incontrastato, come le leggi e gli scritti dei moralisti farebbero ritenere, né l'incidenza delle malattie e la mortalità riproducevano sempre le diseguaglianze sociali. Le famiglie non erano monogamiche nelle aree balcaniche islamizzate, e neppure indissolubili: anche la Chiesa cattolica prevedeva la separazione legale, che autorizzava la distinzione abitativa, mentre il divorzio era permesso a ebrei, cristiano-ortodossi, musulmani, protestanti (Antoinette Fauve-Chamoux). Il rapporto genitori-figli non era improntato alla severità e all'assenza di sentimenti, come studi classici hanno dedotto dalla diffusione del baliatico, dall'alta incidenza della mortalità infantile, dallo sfruttamento della manodopera minorile, dalla frequenza di abbandoni e maltrattamenti. Linda A. Pollock dimostra invece le ragioni strutturali e culturali del ricorso alle nutrici, l'attaccamento dei genitori ai figli pure in un'epoca in cui le malattie falcidiavano i più piccoli, la ricerca anche di un rapporto di reciprocità nell'educazione della prole.
Nell'Europa preindustriale non vi fu un regime demografico indifferenziato, caratterizzato ovunque da alta mortalità e alta natalità: fra l'inizio del XVI secolo e la fine del Settecento la popolazione del continente passò da 81 a 180 milioni, ma con un'alternanza di fasi di espansione e di flessione, e con notevoli variazioni per modalità, tempi e intensità di queste fasi tra paese e paese e tra area e area (Pier Paolo Viazzo). L'età delle rivoluzioni borghesi non segnò dunque una discontinuità così forte come spesso si crede. Altre cesure furono la Riforma protestante (Jeffrey R. Watt); la diffusione della protoindustria, che introdusse notevoli varianti demografiche e diversificò le opzioni possibili all'interno dell'economia rurale (Ulrich Pfister); la stabilizzazione della mortalità durante il XVIII secolo, con il modificarsi del concetto di parentela e la diffusione dell'uso del cognome anche nei ceti medio-bassi (David Gaunt), coinvolti dal cambiamento delle condizioni materiali di vita avviatosi prima negli strati abbienti e nelle regioni più ricche (Raffaella Sarti). Alla fine, l'aggiornamento scientifico porta a rovesciare i modelli culturali: non l'uniformità e la stabilità, ma la compresenza di profonde differenze e i continui cambiamenti costituiscono due elementi forti di una possibile identità europea.
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