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Anno edizione: 2003
Anno edizione: 2015
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Il saggio è di carattere scolastico e monografico, per cui costituisce una lettura di supporto alla didattica della scuola secondaria. Nel merito, le due soluzioni che argomenta sono sulla equazione fra filosofia come disciplina autonoma e teoria della conoscenza e l'identità predicata costituisce una valida soluzione epistemica circa la definizione della materia, anche se il saggio non approfondisce il rango epistemologico inevitabilmente metafisico della teoria gnoseologica nella quale risolve lo scibile filosofico e la disciplina stessa. Manifestamente erronea, invece, la ontologia essenziale della testimonianza giudiziaria e la sua collocazione topica nel plesso delle fonti di conoscenza e l'errore ontologico si declina proprio nella categorizzazione preliminare del fenomeno giudiziario indicato quale dimensione di pensiero proprio di logiche del secondo ordine (metafisico) mentre la prova testimoniale giudiziaria ha una ontologia di sistema invariabilmente (cioè sia civile che penale)di ontologia del primo ordine, cioè fenomenica e fattuale. Il diritto, cioè, regola la testimonianza come fonte di prova limitandone il deferimento istruttorio e l'oggetto di deposizione ai soli FATTI e vietandone con regola di inammissibilità l'estensione ai giudizi o ai predicati di valutazione categoriale comunque iscrivibili nel secondo ordine della ontologia essenziale degli eventi. Ne deriva che la definizione della autrice "la testimonianza è legata al ragionamento" cioè al pensiero del secondo ordine è un errore epistemico, giacchè la prova testimoniale giudiziaria è invece esclusivamente "legata" al fatto, secondo il regime procedurale che la legge riserva a questa fonte di conoscenza primaria nella economia formazione della prova utile al giudizio.
Recensioni
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Il primo dei tre capitoli di questo libro si apre con il tradizionale problema del rapporto fra apparenza e realtà, per proseguire con una rapida esposizione di alcune teorie contemporanee della verità e con il confronto di tre tipi distinti di conoscenza (diretta, competenziale, proposizionale); si conclude sul tema delle fonti conoscitive. Il secondo tratta della classica analisi tripartita della conoscenza (conoscenza come credenza vera giustificata) e della celebre obiezione di Gettier secondo cui le condizioni da essa distinte non sono congiuntamente sufficienti. Sono esposte le principali repliche a Gettier e i loro punti deboli. Quindi è affrontata l'analisi della giustificazione delle credenze, secondo le proposte più note e rilevanti. Il capitolo prosegue con un paragrafo sul naturalismo e la tensione fra tale orientamento descrittivo (come conseguiamo le nostre credenze) e la dimensione normativa della giustificazione (come dovremmo conseguire le nostre credenze). L'ultimo capitolo rende conto di alcuni recenti sviluppi nella teoria della conoscenza: la proposta contestualista e quella femminista.
Il quadro offerto è ricco. Il libro si segnala per chiarezza espositiva e rigore argomentativo. I punti su cui vorremmo fermarci in particolare sono: l'importanza delle ipotesi scettiche, la teoria pragmatista della verità, il tema delle fonti conoscitive.
Che lo scetticismo costituisca un'autentica sfida per la teoria della conoscenza è un'idea cui Vassallo sembra tenere particolarmente. Si prenda la nota prova di Moore, che confuterebbe lo scettico mostrandogli le mani (con ciò dimostrerebbe di avere due mani). Vassallo ritiene che tale prova non abbia valore epistemico e non sia in grado di sconfiggere le ipotesi scettiche. Ma è questa la giusta luce in cui porre la prova o provocazione di Moore? Non si tratta di una risposta non-argomentativa al non-argomento dello scetticismo radicale, ossia a quella forma di scetticismo che non è in grado di fornire le proprie ragioni? Certo Moore cerca di argomentare a sua volta in difesa del senso comune, ma il senso della sua "prova" non ci sembra limitato a tale difesa: può anche valere in campo scientifico, se consiste nel dire che delle ipotesi gratuite, sprovviste di ragioni, non vale curarsi. In questo senso, si può essere scettici sull'importanza dello scetticismo.
Della teoria pragmatista della verità Vassallo offre una presentazione un po' stringata. "Per la teoria pragmatista, difesa da Peirce, James e Dewey, una proposizione è vera se è utile ai nostri fini o se ha un successo". Secondo la ricostruzione dell'autrice, il pragmatista farebbe dipendere la verità dall'utilità e dal successo, esponendosi a un'obiezione immediata: un soggetto può trarre maggiori vantaggi dal credere vera una proposizione falsa. Ma si può replicare in primo luogo che il pragmatismo più avveduto fa dipendere il successo delle azioni dalla verità delle credenze su cui le azioni si basano e non viceversa la verità dal successo; in secondo luogo si deve generalizzare il tipo di azione: il pragmatismo, almeno quello di Peirce e di Ramsey, non dice che per il determinato soggetto A nella determinata situazione S è utile avere la credenza C che pertanto risulta vera; dice che in generale le credenze conducono ad azioni e che le azioni compiute sulla base di credenze vere raggiungono il loro scopo. Se sulla base delle indicazioni stradali credo veridicamente che il paese P sia in una certa direzione, procedendo in tale direzione raggiungerò il paese P; se poi avessi un guasto al motore non lo raggiungerei ma ciò non muterebbe la verità generale della credenza.
Sul tema delle fonti conoscitive, Vassallo riserva una particolare attenzione alla testimonianza, ritenuta l'unica fonte sociale accanto a quattro fonti individuali: percezione, memoria, ragionamento, introspezione. La testimonianza è stata poco indagata: "Le sono state ingiustamente preferite altre fonti conoscitive, quali la percezione e il ragionamento". Cosa si intende dicendo che le sono state ingiustamente preferite altre fonti? Se si intende difendere una sorta di primato epistemico della testimonianza, il supposto vassallaggio delle altre fonti incontra delle obiezioni immediate: ascoltare una testimonianza implica percepire certi suoni, movimenti, espressioni da interpretare; analogamente per le testimonianze scritte; in più l'attività di elaborazione e interpretazione di suoni, movimenti, espressioni, segni, comporta l'uso del ragionamento nonché, plausibilmente, quello della memoria. Ma l'autrice cerca di dimostrare che la testimonianza non è una fonte secondaria rispetto al ragionamento. Inizia col riconoscere che la testimonianza ha un particolare rilievo nel contesto giuridico, dove è legata al ragionamento, ma aggiunge che nella vita quotidiana "le credenze prodotte dalla testimonianza hanno carattere inferenziale solo quando vengono riferite proposizioni che ci paiono strane". Al che si possono avanzare due repliche: (a) la nozione di inferenza impiegata dall'autrice è eccezionalmente stretta, riferendosi ai soli ragionamenti consapevolmente operati; (b) la distinzione fra circostanze "strane" e "non-strane" presuppone almeno un'altra fonte cognitiva, la memoria, senza la quale non si saprebbe distinguere la stranezza dalla non-stranezza. Si può nutrire pertanto più di un dubbio su un possibile primato epistemico della testimonianza, benché si possa convenire che la conoscenza non si sviluppa che in una dimensione sociale, come l'autrice sottolinea. Potremmo concludere a questo modo: la testimonianza è dipendente da altre fonti conoscitive ma è la più importante al fine dello sviluppo della conoscenza. Per così dire, non ha un primato genetico ma un primato finale.
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