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Se è vero, come dice Ionesco, che “rinnovare il linguaggio vuol dire rinnovare la concezione, la visione del mondo”, è indubbio che Jarry può essere considerato uno dei padri della rivoluzione teatrale contemporanea. Non stupisce allora che molti studiosi paragonino il 10 dicembre 1896, “prima” dell’Ubu roi al Theatre de L’Oeuvre di Parigi, alla tumultuosa “bataille d’Hernani” che nel 1830 vide lo scontro decisivo tra classicisti e romantici francesi. Il poeta irlandese Yeats, presente all’avvenimento, ebbe la sensazione di assistere alla fine di un’epoca. L’autore di ‘Ubu’ sfida consapevolmente uno dei sacri canoni dell’arte occidentale, cioè quello che vuole contenuti e forme di un’opera adeguati alla cultura e ai gusti del pubblico cui è destinata. Trasformando un personaggio concepito all’interno di una beffa studentesca nel doppio cinico e mostruoso dell’umanità, o almeno di una faccia dell’umanità, e facendolo senza nessuna strizzata d’occhio, senza nessuna complicità mondana, bensì con una sorta di disarmante immediatezza e una assoluta noncuranza delle buone maniere teatrali, Jarry mette a segno una provocazione che ha nel famosissimo ‘merdre’ iniziale il suo emblema definitivo. Il testo – primo di una serie in cui torna la maschera di Ubu – fonde la lignea e meccanica essenzialità del teatro dei burattini con le più torbide e viscerali meschinità umane: cupidigia, egoismo, crudeltà, frode, vigliaccheria… Una fusione che conferisce all’opera e ai personaggi un’insolita dimensione epica alla rovescia.
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