Leggendo questo romanzo di Anna Melis (come già il suo primo Da qui a cent'anni, menzione speciale alla XXIV edizione del Premio con questa motivazione: "per la ricerca linguistica, lo scintillio dello stile e la capacità di tratteggiare un vivido affresco di vita sarda sulla scia di una consolidata tradizione"), tornano alla mente le pertinenti osservazioni antropologiche di James Clifford (I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri 2010) e di Ralph Coe (Lost and Found Traditions) che prendono spunto dall'arte tribale pellerossa. L'autenticità, la tradizione sono "qualcosa di prodotto e non di salvato". Come dicono gli artisti nativi intervistati da Coe: "I bianchi pensano alla nostra esperienza come si pensa al passato (
) La tradizione non è qualcosa di cui vai parlando in giro. Sta nel farla (
). La tua tradizione è sempre 'lì'. Sei abbastanza elastico da farne ciò che vuoi. È sempre con te". La straordinaria fioritura della nuova narrativa sarda o nouvelle vague sarda, come qualcuno ha voluto battezzarla, (da Mannuzzu a Paola Soriga, passando per Angioni, Todde, Atzeni, Niffoi, Agus, Fois, Flavio Soriga, Murgia, senza citare le madri e i padri nobili), sembra la conferma, in tutt'altro contesto, di queste parole. Non si tratta di esotismo domestico. Si tratta di una sorta di necessità. Anche in Sardegna insomma, in qualche modo, si affonda e si vive nella tradizione. Al di là e al di sotto della contaminazione edilizia (talora non priva di un suo chic, alla Villa Certosa) dilagante lungo le coste dell'isola, esiste infatti quella che è la complessa e profonda stratificazione di un unicum culturale. E appunto tale stratificazione il quasi barbaricino Giulio Angioni, non a caso antropologo oltreché narratore, ha voluto mettere in luce nel suo Millant'anni. C'è dunque altro sotto la luccicanza turistica. Naturalmente tra i nuovi narratori sardi non tutti fanno esplicito riferimento alla tradizione, alcuni di essi tratteggiano una Sardegna in chiave contemporanea, e forse anche vorrebbero liberarsi da quello che considerano un soffocante stereotipo, forse addirittura una schiavitù dell'immaginazione: basti pensare a Flavio Soriga (Sardinia blues) o a Marco Porru (L'eredità dei corpi). Ma resta il fatto che l'esponente più brillante di questa rinascita è stato Sergio Atzeni, con le sue rutilanti e fantasmagoriche rivisitazioni di un passato insieme storico e mitico. E anche i notevoli Marcello Fois (Sempre caro, Stirpe) e Michela Murgia (Accabadora) si abbeverano al patrimonio isolano. A questo punto, non possiamo esimerci dal ricordare come il Premio Calvino abbia anch'esso dato il suo contributo a questa rinascita (favorita in particolare dalle case editrici Ilisso e Il Maestrale di Nuoro) con la scoperta di Fois, di Flavio Soriga, di Porru e, appunto, di Anna Melis. È Anna Melis stessa nella sua nota finale a indicarci da quali ascendenze derivi o voglia derivare la sua ispirazione: Grazia Deledda, Salvatore Satta, Maria Lai e Fabrizio De André. Con i due ultimi siamo nel campo delle suggestioni musicali, coloristiche, dei fremiti e delle mitologie pacifiste e anarchicheggianti che attraversavano gli anni sessanta e settanta. È nota la vicenda del sequestro che per qualche tempo legò De André alla Sardegna. L'esperienza fruttò poi l'album Fiume Sand Creek (che istituisce una sorta di parallelismo tra pellerossa e popolo sardo). Anna Melis cita però Il pescatore, brano che non fa parte di questo album, come sottofondo sonoro alla stesura del suo libro: nel pescatore si rispecchia l'ufficiale gentiluomo Mariano Collu che, cedendo alle ragioni del sentimento, permette all'assassino, l'evaso Luigi Sanna (che egli pensa amato da sua moglie Ilde) di sfuggire al braccio della legge. Dell'artista Maria Lai ritornano, nell'ultima pagina del romanzo, i nastri dell'installazione da lei realizzata a Ulassai, Legarsi alla montagna, come simbolo comunitario. Ben più presenti sono Deledda e Satta. Sono presenti nei paesaggi, nell'onomastica, nel sentire. Quel che colpisce, in questa narrativa intinta nella tradizione (da Deledda a Niffoi a Fois a Melis), è la cartografia comune: ci si muove in uno scenario non sai bene se geografico o fantastico dove ritornano nomi termini e luoghi, facendosi eco da un testo all'altro. L'Ortobene (in nuorese Orthobène), l'altura di granito che incombe su Nuoro, ci fa scivolare dal Vecchio della montagna di Deledda alla casa rocciosa, una tana, un covo, in cui vive per buona parte del romanzo di Melis la protagonista Ilde Zedda. Nuoro, per Satta (Il giorno del giudizio) è un "nido di corvi", l'isola è di "demoniaca tristezza", per Melis "c'era un Male atavico sull'isola. Era un Male che precedeva ogni tempo ". In questo comune scenario, ogni autore conduce poi il proprio peculiare gioco narrativo. Ci sono tutti i parafernali, gli ingredienti della tradizione sarda (i balentes, le jane, le serve, i pastori
), ma il loro riuso, sempre in un'atmosfera di sospensione temporale, è specifico per ciascuno. A Melis interessa il punto di vista femminile. La sua Ilde, afflitta dal mal caduco e orfana, parrebbe una vittima predestinata. È bellissima (ma non ne è consapevole), tutti gli uomini la desiderano e spesso la posseggono. Ma lei che vive in un perenne stato onirico riesce a non farsi mai davvero possedere. La gente ne ha timore (anche gli uomini più arroganti), per il suo male sacro, perché è una fata-strega preda del demonio (nelle sue allucinazioni si sente abitata da un colubro), è una maghiarza, è bionda, è un'istranza, una straniera (suo padre era un confinato nei bagni penali dell'isola), straniera anche a se stessa. Si vive come divisa, come vivesse contemporaneamente diverse vite, ma è proprio questo che le permette di resistere alle forze avverse degli uomini e della natura. Conduce la sua esistenza in orgoglioso isolamento, avvolta in uno splendido scialle di Oliena, nella sua casa di roccia in cui penetrano fronde e venti, immolata, appena uscita dalle untuose mani delle suore, a un gigante demente che solo di tanto in tanto la cerca, Zuannantoni Caria, appartenente a una famiglia di tracotanti possidentes di Nuoro. In questa favolosa solitudine (interrotta solo dalla nascita di un figlioletto) conoscerà Luigi Sanna, il giovane evaso, con il quale vivrà per la prima volta il piacere amoroso. Alla morte di Zuannantoni, per una delle tante faide locali, il suo idillio segreto viene bruscamente interrotto. Con un improvviso colpo di scena, torna dal continente il capitano dei carabinieri Mariano Collu, di aristocratica stirpe nuorese, con la missione pubblica di catturare il "bello dell'Ogliastra" (che Ilde pensa erroneamente sia l'amato Luigi) e con la privata missione di salvare, per arcaici e misteriosi motivi famigliari e d'onore, Ilde ormai "vedova" e senza appoggi. Ilde così sposerà (passivamente) Mariano, ma poi, come sempre, si ribellerà, a modo suo, rifiutandosi al marito. Nel caleidoscopico finale, caratterizzato da un'incalzante catena di eventi declinati sul filo dell'ambiguità, Ilde si sentirà divisa tra l'amore per il balente (il giovane Luigi) e il fascino che il nobile marito ha cominciato a esercitare su di lei. Quando infine prenderà la sua decisione, una pallottola reciderà la vita del capitano: sarà il "bello dell'Ogliastra" a suggellarne il luttuoso destino. Ma ormai Ilde sa. Sa a chi è dovuto il suo amore, questa volta consapevole. Sa anche staccarsi dal proprio corpo e raggiungere nascostamente, quando vuole, il regno dei morti, per raggiungere Mariano: conosce ormai "i mille luoghi dell'anima", le "mille anime dell'esistenza". Come la Modesta dell'Arte della gioia ha imparato scandalosamente a essere autonoma: tiene per sé una parte di se stessa. Mario Marchetti
Leggi di più
Leggi di meno