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Anno edizione: 2013
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Un giovane medico portoghese viaggia fino al mozambico sulle tracce dell'amata scomparsa. Un labirinto di personaggi misteriosi, un'atmosfera carica di pathos che ricorda quella di Cuore di tenebra di Conrad.
Ho acquistato questo libro per caso, attratto dal titolo insolito e dalla curiosità per la letteratura africana che conosco poco. Mi sono ritrovato nel coloratissimo Mozambico, popolato da personaggi stravaganti e bugiardi, in un paese poverissimo ed arretrato, ancorato al colonialismo europeo di cui porterà a lungo i segni. Questo breve romanzo intriga e diverte, vale la pena dedicargli il poco tempo che si impiega per leggerlo
Recensioni
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Nessuno è ciò che dice d’essere nel Mozambico di Couto
Poche ore di piacere puro, pagine che sono respiri brevi e scorrono rapide, eppure lasciano il segno, dialoghi intelligenti e fulminanti, frasi («Chi chiede sempre, non sa desiderare» oppure «L’età è una malattia repentina […] Siamo padroni del tempo solo finché il tempo si dimentica di noi») che lasciano interdetti per quanto sono belle e vere, di quelle da sottolineare. Non è facile trovare libri che regalano tutto questo, bisogna cercare bene, o essere fortunati quando si vaga all’interno delle librerie.
L’ultimo romanzo così arriva dall’Africa, l’ha scritto qualche anno fa uno scrittore mozambicano, Antònio Emìlio Leite “Mia” Couto (classe 1955), ed è stato tradotto da Daniele Petruccioli per la raffinata casa editrice Voland. Il titolo è Veleni di Dio, medicine del diavolo (150 pagine, 13 euro) ed ha il solo difetto d’essere troppo breve. Con questo romanzo Couto, scrittore di primo piano nel continente africano, torna alla ribalta in Italia, dove era sbarcato già alcuni anni fa grazie a Luis Sepulveda, in una collana (“La frontiera scomparsa”) in cui l’autore cileno presentava talenti nascosti, pescati alla periferia dell’impero letterario. A cominciare, come nel caso di Couto, dal Mozambico, un paese che nella seconda metà del Novecento si è affrancato dal potere coloniale lusitano nel 1975, instaurando un regime monopartitico, facendo a suo modo parte del blocco comunista durante la Guerra Fredda, e successivamente vivendo fino a quasi metà degli anni Novanta una guerra civile, che fece oltre un milione di vittime. Figlio di genitori portoghesi emigrati poco prima della sua nascita a Beira, città che era un mosaico multiculturale, Couto ha lottato come mozambicano per l’indipendenza dal Portogallo ed è stato direttore dell’agenzia nazionale di informazione, prima di tornare a fare il biologo, professione che affianca alla scrittura.
La malinconica storia raccontata in Veleni di Dio, medicine del diavolo attinge a un’ancestrale tradizione orale e si nutre di mistificazioni, menzogne e segreti, di realtà distorte e delazioni (forse) inattendibili. Nessuno dei protagonisti è ciò che dice di essere o ciò che sembra, tutti hanno delle zone d’ombra, a cominciare da Sidònio Rosa, giovane medico che, innamorato della bella Deolinda conosciuta in patria, decide di lasciare il Portogallo per Vila Cacimba, un angolo remoto del Mozambico, dove crede di ritrovarla. Una ricerca che sarà tutt’altro che semplice e fiaccherà i sentimenti di Sidònio Rosa. La fortuna del dispositivo narrativo sta in certo amaro sarcasmo e soprattutto nei punti di vista differenti – quelli degli interlocutori del giovane medico, dai genitori di Deolinda, Munda e Bartolomeu, che sembra molto malato, ad Alfredo Suacelencia, un politico locale – che ribaltano tutto di pagina in pagina e spiazzano il lettore, senza disorientarlo, perché l’andamento della storia resta comunque semplice e piacevole.
La prosa è poetica, la lingua è preziosa e nell’originale portoghese c’è una creativa reinvenzione lessicale che il traduttore rende molto bene, perfino nelle note dell’autore a piè di pagina. Alla vivacità verbale si affianca quella narrativa, un po’ come nelle principali opere di un punto di riferimento di Couto, il brasiliano Guimaraes Rosa. A Villa Cacimba – una cittadina immaginaria dalla fitta nebbia – scoppia e s’espande un’epidemia che sembra sfuggire alle leggi della scienza e, con convulsioni, febbri e deliri risparmia poche persone. Le visite quotidiane del medico alla casa dei genitori di Deolinda (che in una lettera, di incerta attribuzione, gli ha chiesto di prendersi cura di loro), assente e di cui si attende il ritorno, scandiscono i brevi capitoli. L’amore della vecchia coppia – lei mulatta, lui nero – è minato da rancori in serie, tradimenti (veri o presunti) dell’uomo, che vanta un passato al servizio della Companhia Colonial de Navegação, unico nero dell’equipaggio della nave Infante Dom Henrique. L’epoca coloniale, però, è passata, «la nave era rimasta in secco ed era diventata un ferrovecchio in attesa di essere rottamato, un po’ come lui».
In questo universo Couto innesta, sempre tra verità e inganno, una storia d’amore impossibile – non solo fra un uomo e una donna, ma in un certo senso tra l’Europa e una certa idealizzata Africa – e temi universali come la crisi della famiglia, l’aborto, l’incesto, il confronto fra tradizione e modernità, l’eros e la malattia, la vecchiaia e la sofferenza. Il finale può sembrare una sconfitta per tutti, non però per chi ama i bei libri.
Recensione di Salvatore Lo Iacono
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