Indice
Le prime pagine del romanzo
La prima sensazione che ricordo del mio ingresso in comunità è di puro, immenso sollievo. Il posto, contro ogni mia aspettativa, era accogliente e luminoso. Le sue pareti erano tinteggiate di un caldo rosa pesca e un profumo di lavanda riempiva le narici, come quando qualcuno ti spinge un mazzetto di fiori essiccati sotto il naso.
Indossavo un vestitino di organza celeste pieno di volants – confezionato per me due anni prima, per il pranzo della comunione – che mi andava un po’ stretto sulle spalle e doveva darmi un’aria piuttosto ridicola. Eppure l’estranea che aveva aperto la porta non fece neppure un commento sul mio abito. I suoi occhi si soffermarono invece sui sacchi neri per l’immondizia che mi tiravo dietro e che contenevano tutti i miei giocattoli.
«Sono le mie valigie» spiegai con urgenza, per chiarire che non si trattava di spazzatura.
Nel sentire la mia voce, l’estranea mi rivolse un sorriso spontaneo, benevolo. I suoi occhi, dietro gli occhiali tondi e un po’ storti, sembravano due chicchi di caffè. Si fece da parte e mi chiamò con il mio nome: «Vieni dentro, Ginevra, e lascia pure i tuoi bagagli qui nell’anticamera. Li disferemo non appena ti sarai ambientata. Nel frattempo, che ne dici di dare un’occhiata alla tua stanza? Gli altri arriveranno tra poco».
Nelle settimane precedenti, non avevo fatto altro che domandarmi che aspetto avessero i bambini della comunità.
Avevo già abitato in un istituto, quando ero molto piccola, ma non conservavo alcun ricordo dei piccoli compagni con cui avevo condiviso il dormitorio. E se fossero stati aggressivi? Da qualche parte avevo sentito che al mondo non esistono bambini cattivi. Nella penombra osservavo il mio riflesso paurosamente pallido – c’era uno specchio nell’anta dell’armadio di fronte al mio letto – e mi tranquillizzavo pensando che, se somigliavano a me, non sarebbero stati poi così male.
Eppure, da ormai parecchie notti, un incubo mi perseguitava: venivo atterrata sullo zerbino da un grappolo di ragazzini cenciosi pronti a strapparmi gli occhi con le loro lunghissime unghie a uncino. Braccia rachitiche e luride si afferravano ai miei vestiti facendoli a brandelli, facce nere illuminate da ghigni perversi mi fissavano con insistenza. Le loro bocche, che nella maggior parte dei casi non erano altro che cavità sudicie e maleodoranti, dalla dentatura marcia, mi investivano con gli insulti che, a quasi 11 anni, pensavo fossero i peggiori che si potessero rivolgere a una ragazzina. “Racchia. Ridicola. Con quel vestito stretto e quei sacchi sembra la reginetta della pattumiera.” Talvolta mi azzannavano il naso e io mi svegliavo di colpo urlando di terrore, e poi ci voleva sempre un po’ prima che trovassi il coraggio di richiudere gli occhi; ma più spesso la paura era talmente forte che alla fine non riuscivo a fare altro che svegliarmi di soprassalto per scappare dall’incubo. Allora mi liberavo immediatamente della trapunta e aspettavo che un brivido di freddo mi percorresse la schiena, segnale inequivocabile che, almeno per quella notte, i mostri non sarebbero tornati.