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Anno edizione: 2002
Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2006
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Un lento e faticoso viaggio a ritroso nella memoria, nei ricordi sbiaditi, nelle fotografie consumate, in vecchi documenti. Parole e immagini scorrono davanti a noi anche se spesso non correlate. Il flusso dei pensieri vaga e ci porta in strane direzioni apparentemente senza ragione, ma c'è sempre una ragione, che improvvisamente prende forma.
libro molto interessante, dotto, coinvolgente : da non perdere .
Mi era stato consigliato e devo confessare che ci ho messo un po' a capire perché. Una volta però che ci si lascia sedurre dallo scrivere e dal mostrare di Sebald se ne può apprezzare l'ampiezza del respiro, la profondità del suo sguardo. Equilibirio assoluto anche nella caratterizzazione del protagonista.
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Willibald. G. Sebald
AUSTERLITZ ed. orig. 1999, trad. dal tedesco di Ada Vigliani, pp. 315, 87 ill. in b/n, Ç 16, Adelphi, Milano 2002L'ultimo romanzo di W.G. Sebald - come del resto la sua intera opera - è percorso dalla prospettiva dell'uomo contemporaneo, costantemente minacciato fin nelle sue più intime fibre dall'incertezza e dall'orrore di una storia avvertita come gigantesco processo distruttivo. Nei libri di Sebald è evidente il tentativo di ricostruire i destini di singoli individui sfiorati o travolti da questo processo, al fine di scrivere una storia europea degli ultimi due secoli priva del crisma dell'ufficialità che tutto ottunde. Per farlo, l'autore usa i mezzi di una scrittura seducente, finanche ipnotica, che con eleganza trascina il lettore nel vortice di una fantasia malinconica, in grado di leggere il mondo come fonte inesauribile di segnali - perlopiù di sventura - che si aggregano e si accumulano fino a costituire un peso a tratti insostenibile. È l'acribia del collezionista che raccoglie dettagli, impressioni, presagi e li mescola con le immagini fotografiche in bianco e nero che caratterizzano tutti i testi di questo autore, e che con la loro sola presenza alludono a un passato definitivamente scomparso.
C'è certo un gioco, una sorta di flirt con la malinconia, appunto, e con l'esperienza della fine del mondo ad essa (e alle sue forme acute, come la depressione patologica) collegate; ma c'è anche la trascrizione della situazione esistenziale di tanti soggetti del Novecento occidentale, condannati all'esilio da una qualsiasi patria, anche dove non ci sono urgenze politiche o economiche. La vita è sempre altrove, in uno spazio che può essere l'infanzia, l'utopia, una comunità o una cultura in cui sentirsi davvero a casa. Così è stato il destino di Sebald: nato nel 1944, lascia >la Germania a venticinque anni per sfuggire al suo carattere autoritario, al silenzio con il quale la generazione dei padri continua a circondare i crimini e le sofferenze della guerra e del nazismo, approdando nella più libera - allora - Inghilterra, dove insegna letteratura tedesca fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2001; da questa posizione periferica nasce uno sguardo attento e partecipe verso la storia e l'atteggiamento dei tedeschi, a cui spesso nei suoi testi rimprovera l'incapacità di ricordare.
Il cuore segreto attorno a cui gravita larga parte della sua produzione è la Shoah, il "maelstrom nero della storia", come l'ha definita. La colpevole rimozione della Germania occidentale postbellica trova la sua controparte nell'impossibilità di dimenticare di chi ha sofferto. Il non ebreo Sebald prende a cuore le vittime del nazismo descrivendo non tanto i patimenti a cui sono state sottoposte, quanto le conseguenze, soprattutto psicologiche, di sofferenze che col tempo invece di scomparire si fanno più acute: i personaggi di Sebald non soggiacciono a violenze immediate, ma al potere di una "memoria inesorabile". La memoria è infatti in questo autore una facoltà sempre problematica, avvertita come necessaria e dolorosa al contempo, che se da un lato costruisce l'identità dell'individuo, dall'altro lacera la sua integrità e mette in pericolo il suo equilibrio psichico.
Così avviene nei quattro racconti lunghi del libro Gli emigrati (1993; Bompiani, 2000), che da molti è considerato il più bel libro di W.G. Sebald; così avviene anche nell'ultimo romanzo. Jacques Austerlitz, in lunghi monologhi alla presenza del narratore, ripercorre la sua storia, a cominciare dall'infanzia passata in Galles nella casa del severo predicatore calvinista Elias. In collegio gli viene rivelato il suo vero nome - fino ad allora aveva creduto di chiamarsi Dafydd Elias; ma non trova nessuna indicazione sulla sua vera identità. Solo quarant'anni più tardi, nel 1998 (trent'anni dopo il primo incontro con il narratore) Austerlitz riesce a ritrovare la sua balia a Praga, la quale gli racconta la storia della sua famiglia: come prima dell'arrivo delle truppe tedesche egli sia stato caricato su di un treno verso l'Inghilterra, come il padre sia riuscito a fuggire a Parigi e la madre sia stata invece deportata a Theresienstadt, perché ebrea.
In mezzo c'è la storia di un senso di solitudine e di uno spaesamento sempre più vasti. In uno dei passi più intensi, Austerlitz dice: "Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, mi sono sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto". La sterminata erudizione del protagonista non riesce a colmare questo vuoto, non potendo fungere da memoria compensativa; essa si limita a trasformare in metafora vari aspetti della realtà, fra i quali primeggiano certo le costruzioni evocate continuamente nel testo (Austerlitz è professore di storia dell'architettura): dalle stazioni ferroviarie come quella di Anversa, dove i due si incontrano per la prima volta, significativamente nella Salle des pas perdu, ai fortini-lager come Breendonk o Theresienstadt, "paranoidi elaborazioni" architettoniche, folli fin dalla loro concezione, folli già prima del loro utilizzo ai fini dello sterminio, a quel >monumento ipertecnologico che è la Bibliothèque Nationale di Parigi, considerata "disgustosa" da Austerlitz. L'architettura è qui una cristallizzazione della Storia; e il Napoleone evocato dal nome del protagonista occhieggia da molti passi di questo inquieto e malinconico autore, come grande metafora della violenza storica.
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