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Un libro molto ben scritto, e molto ben documentato: narra la vicenda di tanti orfani della Shoa’: i campi di sterminio, l’arrivo a Selvino (‘Sciesopoli’) dove trovano un ‘surrogato’ di famiglia che li accoglie, li nutre e in qualche modo li fa sentire circondati dall’affetto e li educa, la partenza per Israele (con tutti i problemi che questo comporta, a cominciare dal Libro Bianco inglese che ne limita il numero), la vita in Israele e per finire le guerre alle quali partecipano per difendere Israele stesso dagli arabi. Molto interessante, anche se a volte, per l’alto numero delle vicende, si perde un po’ il filo; ma poi lo scrittore ci riaccompagna, riscrivendo qualche caratteristica peculiare della persona di cui sta parlando, facendocela ricordare.
Difficile da leggere all'inizio, con tutte quelle famiglie di cui è difficile ricordare il nome e tutti quei particolari topografici, come se Lodz fosse la mia città, ma poi si dipana bene e Moshe è una figura commovente, nella sua bontà e nelle sue capacità organizzative. Leggetelo, che vi fa bene. Quello che ancora una volta ho notato leggendo libri sugli ebrei di autori ebrei e quindi scevri di animosità, è che almeno la maggior parte degli ebrei considerarava e consideri ancora la Palestina NON la loro terra, ma terra di LORO PROPRIETA' e quindi terra di riconquista. Leggete nell'ultima parte del libro le distruzioni di villaggi e l'uccisione di persone per costruire kibbutz, la cui cultura, a mio parere, avrà fatto crescere molti pompelmi, ma ha distrutto l'umanità degli israeliani.
Moshe Zeiri è un uomo che compie il bene possibile e, forse, anche di più... A Piazzatorre, in Val Brembana, l'8 settembre del 1945 celebra la festa di Rosh Hashanah del 5706 con i suoi bambini e ragazzi, orfani del centro ed est Europa, sopravvissuti allo sterminio. Scrive alla moglie in Palestina: Racconta uno di questi ragazzi dopo alcuni decenni: “Gli educatori non sapevano come trattare questi ragazzi che venivano da un altro mondo”. Spesso non conoscevano le loro lingue come afferma Noga, un'educatrice: “Io e loro non avevamo nessuna parola in comune, soltanto i gesti: lavarli, vestirli, soltanto l'amore (…) Io non parlavo niente: solo con le mani, con le carezze, con i baci”. Moshe si era appassionato al lavoro del pediatra, pedagogo Janus Korczack (1978-1942) che a Varsavia durante la guerra diresse l'orfanotrofio ebraico, che accompagnò i bambini fino al campo di sterminio di Treblinka. La colonia di Silvino in Val Seriana è circondata dalla miseria dei valligiani, perennemente affamati i ragazzi che si mettevano davanti al cancello finché qualcuno veniva e dava loro un panino. I giovani del paese giocavano a calcio con gli ospiti ebrei; se perdevano “venivano rifocillati” e allora, caspita, perdevano volentieri perché “questi qui come reliquie li tenevano”. Insomma agli orfani, secondo i giovani valligiani, non mancava il cibo. E, invece, secondo gli ospiti le razioni di Moshe erano scarse: questo è uno dei pochi rimproveri che gli rivolgevano. Moshe voleva educarli alla sobrietà, allenarli alle difficili condizioni di pionieri che li avrebbero attesi in Palestina. Ma i ragazzi venivano da un mondo devastato, erano stati rinchiusi nei ghetti, schiavi nei campi, avevano perso le famiglie, la lingua; erano ragazzi affamati, in tutti i sensi... Lo scrittore Aharon Appelfeld, anche lui orfano passato per l'Italia prima di imbarcarsi per la Palestina, scriverà anni dopo: “Il furto della giovinezza è una lacerazione inguaribile”.
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